Mi sollevai, appoggiandomi sul gomito. Niente aurora, niente dolcezza dell’alba. Un bagliore di un azzurro elettrico abbracciava l’orizzonte. Il primo raggio scoccò attraverso la camera come un dardo e i suoi riflessi giocarono su tutto.
Nello specchio, sulle maniglie, sui tubi di nichel si infransero i riflessi dell’arcobaleno, sembrava che la luce si precipitasse su ogni superficie liscia per conquistare nuovo spazio, per far saltare in aria la camera. Mi voltai. Le pupille di Harey si erano contratte. L’iride grigia dei suoi occhi si alzò fissandosi sul mio viso.
— E’ già giorno? — chiese con voce spenta. Era fra sonno e veglia.
— Qui è sempre così, cara.
— E noi?
— Noi, che cosa?
— Staremo qui ancora a lungo?
Mi venne quasi da ridere. Ma quando udii la voce turbata che mi uscì dal petto, non aveva nulla di una risata. — Penso che staremo qui a lungo. Ti spiace?
Mi fissava senza muovere ciglio. Batteva le palpebre, in genere? Non ne ero sicuro. Tirò su la coperta e scorsi sul suo braccio il minuscolo, roseo segno dell’iniezione.
— Perché mi guardi?
— Perché sei bella.
Sorrise. Ma solo per cortesia, per ringraziarmi del complimento. — Veramente? E’ che mi guardi, come se tu… come se io…
— Cosa?
— Come se tu cercassi qualcosa.
— Storie!
— No, è come se tu pensassi che ho, o che ti ho, taciuto qualcosa.
— Ma no.
— Se neghi a questo modo, allora è vero. Ma fa’ come vuoi.
Da dietro le lastre avvampanti veniva un’incandescenza azzurro smorto. Facendomi schermo con la mano, cercai gli occhiali. Erano posati sul tavolo. Inginocchiato sul letto, li infilai e vidi la sua immagine riflessa nello specchio. Aspettava qualcosa. Quando mi sdraiai nuovamente al suo fianco, mi sorrise.
— E per me?
Di colpo capii.
— Gli occhiali? — Mi alzai e cominciai a cercare nei cassetti del tavolino sotto la finestra. Ne trovai due paia, erano grandi. Glieli diedi. Li provò, uno dopo l’altro. Le cadevano fino alla metà del naso.
Con un lungo cigolio cominciavano a chiudersi le saracinesche delle finestre. In un secondo, all’interno della stazione, che in quel momento era simile a una tartaruga che si ritira nel suo guscio, dominò la notte. A tentoni le tolsi gli occhiali e assieme ai miei li misi sotto il letto.
— Cosa faremo? — domandò.
— Ciò che si fa di notte. Dormiremo.
— Chris.
— Cosa?
— Ti faccio un nuovo impacco?
— No, non occorre… non ce n’è bisogno, cara.
Nel dirle questa parola, non mi era chiaro se fosse simulazione; ma di colpo, nel buio, abbracciai ciecamente le sue piccole spalle e, sentendole tremare, credetti in lei. Insomma, non so, tutt’ ad un tratto mi sembrò che lei non m’ingannasse, e che invece fossi io a ingannarla, poiché lei in fondo era solo se stessa.
Dormii a tratti, nel dormiveglia mi coglievano dei crampi.
Il martellamento del cuore si placava pian piano. La abbracciavo più stretta, stanco morto, e lei mi toccava la faccia, la fronte, molto delicatamente, per vedere che non avessi la febbre. Era Harey. Non poteva esisterne un’altra più genuina.
Dopo questo pensiero, in me si produsse un cambiamento: smisi di lottare e quasi immediatamente mi addormentai.
Mi svegliò un leggerissimo tocco. Un senso di refrigerio mi cingeva la fronte. Ero sdraiato con la faccia coperta da qualcosa di umido e leggero che si alzò lentamente. Vidi la faccia di Harey chinata su di me. A due mani strizzava la garza su una ciotola di porcellana. Di fianco c’era la crema contro le bruciature. Mi sorrise.
— Che sonno pesante hai — mi disse, mettendomi di nuovo la garza. — Ti fa male?
— No.
Mossi la pelle della fronte, effettivamente le bruciature non mi davano fastidio. Harey era seduta sulla sponda del letto, avvolta in un accappatoio da uomo a strisce bianche e arancione, i suoi capelli neri cadevano sciolti sul colletto. Le maniche erano rimboccate fino al gomito. Avevo una fame terribile, non toccavo cibo da venti ore. Quando Harey terminò le sue cure sul mio viso, mi alzai. Il mio sguardo cadde subito su due vestiti identici; bianchi con i bottoni rossi, posati l’uno accanto all’altro: il primo, quello che io stesso avevo tagliato per aiutarla a toglierselo; il secondo, con il quale era tornata il giorno prima. Questa volta lei stessa aveva tagliato con le forbici la cucitura. Disse che sicuramente la cerniera si era bloccata.
Quei due vestiti erano la cosa più difficile da sopportare fra tutte quelle capitate fino ad allora. Harey stava mettendo in ordine l’armadietto con i medicinali; le volsi furtivamente le spalle e mi morsi a sangue la mano. Senza staccare gli occhi da quei due abiti, o meglio da quell’abito duplice, cominciai a retrocedere verso l’uscita. L’acqua usciva dal rubinetto rumorosamente. Aprii la porta e la chiusi con molta cautela, sgattaiolando silenziosamente nel corridoio. Udivo debolmente il rumore dell’acqua che scorreva e il tintinnio delle bottiglie, e a un tratto ogni rumore cessò.
Nel corridoio erano accese le lunghe lampade da soffitto, una piccola macchia di luce si rifletteva sulla superficie della porta, e io aspettavo, a denti stretti, con la maniglia tra le dita, pur se prevedevo che non sarei riuscito a trattenerla. Un colpo improvviso quasi me la tolse di mano, ma la porta resistette e non si aprì, vibrò soltanto, poi scricchiolò terribilmente. Mollai la presa impietrito e retrocessi. A quella porta stava accadendo una cosa incredibile: la sua superficie di plastica liscia cominciò a curvarsi e a gonfiarsi verso l’interno della camera. Lo smalto si sbriciolò, scoprendo l’acciaio dell’intelaiatura che si arcuava sempre più.
Di colpo capii: invece di spingere la porta, che si apriva verso il corridoio, lei cercava di aprirla tirandola verso di sé.
Il riflesso della luce sulla superficie si deformò come in uno specchio concavo, si udì un forte schianto e la lastra piegata si ruppe. Contemporaneamente, la maniglia si staccò con tutta la serratura e cadde sul pavimento della stanza. Dall’apertura spuntarono un paio di mani insanguinate che lasciavano lunghe tracce rosse sullo smalto. La porta si era spezzata in due parti appese di sbieco ai cardini, e una creatura biancoarancione con un viso livido come una morta mi si gettò sul petto singhiozzando.
Questo spettacolo mi inchiodò dov’ero, non tentai nemmeno di fuggire. Harey tentava convulsamente di riprendere il respiro, batteva il capo contro la mia spalla e faceva volare i capelli; quando l’abbracciai, sentii che mi crollava tra le mani. La portai nella stanza, passando di fianco alla porta distrutta, e la posai sul letto. Aveva le unghie rotte e tutte insanguinate. Quando le girai la mano, vidi che la palma era scarnificata. La fissai in viso, i suoi occhi mi attraversavano, senza espressione.
— Harey?
Mi rispose con un brontolio inarticolato.
Le avvicinai un dito all’occhio. La palpebra si chiuse. Andai all’armadietto dei medicinali. Il letto scricchiolò. Mi voltai. Si era levata a sedere e guardava con spavento le mani insanguinate.
— Chris — gemette. — Io… io… che cosa mi è successo?
— Ti sei ferita cercando di sfondare la porta — dissi seccamente. Avvertii qualcosa sulle labbra, specialmente sul labbro inferiore, come se ci fossero delle formiche. Lo trattenni con i denti.
Harey osservò un momento quei pezzi di porta scheggiati e tornò con lo sguardo verso di me. Le tremò il mento, vidi lo sforzo con il quale cercava di dominare la paura. Tagliai alcuni pezzi di garza, presi dall’armadietto la polvere per le ferite e tornai verso il letto. Tutto ciò che portavo in mano mi cadde di colpo, la boccetta di vetro col liquido gelatinoso si ruppe, ma non mi chinai neppure, non era più necessario.