Sollevai le sue palme. Aveva ancora tracce di sangue secco sulle unghie, ma le ferite erano scomparse, la pelle appariva più chiara, più giovane, più rosea. La cicatrice spariva quasi a vista d’occhio.
Sedetti, le accarezzai il volto e cercai di sorridere; non posso dire di esserci riuscito.
— Perché l’hai fatto, Harey?
— No. Sono stata… io? — Con lo sguardo indicava la porta.
— Sì. Non ti ricordi?
— No. Ossia, mi sono accorta che non c’eri e mi sono spaventata molto e…
— E allora?
— Ho cominciato a cercarti, ho pensato che forse eri nel bagno… Mi ero accorta che l’armadio mi bloccava la vista del bagno.
— E poi?
— Sono corsa verso la porta.
— E allora?
— Non ricordo. Qualcosa dev’essere successo…
— Che cosa?
— Non lo so.
— Che cosa ricordi? Cos’è successo dopo?
— Sedevo qui, sul letto.
— Il fatto che ti ho portata io, non lo ricordi?
Esitò. Gli angoli della bocca si abbassarono, il viso appariva pieno di tensione. — Mi sembra. Forse. Non lo so.
Mise i piedi a terra e si alzò. Si avvicinò alla porta distrutta.
— Chris!
La cinsi tra le mie braccia standole alle spalle. Tremava.
Di colpo si girò cercando i miei occhi.
— Chris — sussurrò. — Chris.
— Calmati.
— Chris, se sono stata io, Chris, sono epilettica?
Epilettica, mio Dio! Mi veniva da ridere.
— Macché, amore. Semplicemente, qua, la porta, sai, sono così queste porte…
Lasciammo la stanza nel momento in cui si aprivano le saracinesche col solito rumore, mostrando l’immergersi del disco solare nell’oceano.
Mi diressi verso il piccolo locale della cucina, che era all’altra estremità del corridoio. Mi affacciai insieme ad Harey, rovistando nei cassetti e nei frigo. Mi accorsi subito che non era capace di cucinare, come me. Mangiai il contenuto di varie scatolette e bevvi parecchie tazze di caffè.
Harey mangiava anche lei, ma così come ogni tanto mangiano i bambini, per far piacere ai grandi: senza sforzo ma meccanicamente, con indifferenza.
Ci dirigemmo verso una piccola sala operatoria, accanto alla cabina radio: avevo un nuovo piano. Le dissi che desideravo sottoporla a un controllo medico generale. La feci sedere su una poltrona e presi da uno sterilizzatore una siringa con l’ago. Sapevo dove si trovavano le cose quasi a memoria per averlo imparato durante il periodo di addestramento a terra. Estrassi una goccia di sangue dal suo dito, feci un vetrino, lo asciugai sotto l’aspiratore e lo sottoposi a una pioggia di ioni d’argento sottovuoto. Questo lavoro mi calmava.
Harey, riposando sui cuscini della poltrona, faceva vagare lo sguardo sul fitto spiegamento di apparecchi della saletta operatoria.
Il silenzio fu rotto dal ronzio del telefono interno. Alzai il ricevitore.
— Kelvin — dissi. Non distoglievo lo sguardo da Harey, che da un po’ di tempo sembrava piuttosto apatica, come esausta per le esperienze vissute nelle ultime ore.
— Sei lì, in chirurgia? Finalmente! — sentii come un sospiro di sollievo.
Parlava Snaut. Aspettai, col ricevitore incollato all’orecchio.
— Hai un ospite, vero?
— Sì.
— E sei occupato?
— Sì.
— Stai facendo certi controlli, eh?
— E con ciò? Vuoi fare una partita a scacchi?
— Ah, piantala, Kelvin! Sartorius vuole vederti. O meglio, vederci.
— Questa è una novità — risposi sorpreso. — E’ con… — mi interruppi e conclusi: — E’ solo?
— No. Mi sono espresso male. Vuole soltanto parlare con noi. Ci metteremo in collegamento a tre col videotelefono, solo che copriremo il video.
— Ah, sì? Allora perché non mi ha chiamato direttamente?
Si vergogna?
— Qualcosa di simile — brontolò Snaut. — Allora?
— Dobbiamo fissare un appuntamento? Diciamo fra un’ora.
Va bene?
— Bene.
Lo vedevo sul piccolo schermo, il suo viso non era grande più di un palmo. Per un momento mi guardò fisso negli occhi.
Alla fine parlò con una certa titubanza: — Come ti va?
— Discretamente. E a te?
— Un po’ peggio, penso. Potrei…
— Vuoi venire da me? — Avevo indovinato. Guardai Harey.
Aveva la testa inclinata sul cuscino ed era sdraiata con una gamba sull’altra, giocando, annoiata, con una pallina d’argento che era attaccata con una catenella di fianco alla poltrona.
— Lascialo! Mi senti? — mi giunse la voce irritata di Snaut.
Vidi sul monitor il suo profilo. Il resto non lo sentii perché coprì il microfono con le mani, scorgevo solo le sue labbra muoversi.
— No, non posso venire. Forse più tardi. Allora tra un’ora — disse poi in fretta, e il video si spense.
Attaccai il ricevitore.
— Chi era? — domandò Harey senza interesse.
— Un tale Snaut. Un informatico. Non lo conosci.
— Durerà ancora a lungo?
— Ti annoi? — le chiesi. Collocai nel cassetto del microscopio a neutroni il primo preparato della serie e premetti via via la fila di bottoni variamente colorati. I campi di forza ronzavano sordamente.
— Non ci sono grandi divertimenti, qua, e se non ti basta la mia compagnia, pazienza — continuai, prolungando distrattamente la pausa tra una parola e l’altra; allo stesso tempo presi tra le mani la testata nera del microscopio, la tirai verso di me e premetti gli occhi sulla soffice feritoia di gomma. Harey disse qualcosa che però non mi raggiunse. Vedevo dall’alto, in ripido scorcio, un gran deserto inondato di luce argentea. Immersi in questa, e circondati da una specie di nebbia, c’erano dei massi piatti, sgretolati ed erosi: i globuli rossi. Senza staccare gli occhi dall’oculare, mettevo sempre più a fuoco l’obiettivo, penetrando a poco a poco nel fondo di quel campo visivo argentato. Al tempo stesso, con la mano sinistra, giravo la manopola che regolava il supporto. Quando trovai il masso erratico di un globulo rosso, isolato, cominciai ad aumentare l’ingrandimento. L’eritrocito era leggermente incurvato nel mezzo e aveva l’aspetto di un cratere roccioso circolare, con ombre nette e nere nel margine interiore dell’anello. Questo margine, irto di cristalli d’argento, sfuggì dal campo del microscopio. Apparve la sua struttura di amminoacidi: anelli atrofizzati e distorti dai contorni leggermente intorbidati visti come attraverso un’acqua opalescente. Fisso su una delle catene di albumina rovinate, muovevo leggermente la vite per aumentare la visuale. Di lì a un attimo sarebbe dovuto apparire il limite ultimo di quel viaggio nelle profondità. L’ombra appiattita di una molecola riempì tutto il campo, divenne sfumata.
Però non successe niente. Avrei dovuto vedere, in quella nebbia, degli atomi vibranti come una distesa di erba tremula, ma non c’erano. Il campo visivo era tutto argentato. Mossi la vite sino alla fine. Crebbe il ronzio, ma non vidi nient’altro. Il suono ripetuto di un segnale d’allarme mi indicò che l’apparecchio era in sovraccarico. Osservai ancora un attimo quel deserto argenteo e staccai la corrente.
Guardai Harey. Apriva in quel momento la bocca per uno sbadiglio, ma lo cambiò abilmente in un sorriso.
— Come sto? — chiese.
— D’incanto — dissi. — Penso che… non potresti stare meglio.
Continuavo a guardarla, sentendo di nuovo quel formicolio sul mento. Che cos’era successo? Che cosa significava?
Questo corpo, apparentemente delicato e fragile, in realtà indistruttibile, risultava alla fine composto di niente? Picchiai col pugno il corpo cilindrico del microscopio. Forse era difettoso? Forse i campi non si mettevano a fuoco…? Non sapevo se l’apparecchiatura fosse efficiente. Ero passato attraverso tutti i gradi, le cellule, i conglomerati di amminoacidi, le molecole; tutto sembrava uguale a milioni di preparati che avevo già visto. Ma l’ultimo passo non dava alcun esito.