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Ma solo dall’alto, da un apparecchio in volo, il longo appare così. Se si scende, quando le due «pareti del burrone» si innalzano per centinaia di metri al di sopra del velivolo, ci si accorge che il «corpo del pitone», quel cilindro gonfiato che si estende fino all’orizzonte, è animato da un moto vertiginoso. Si osserva per prima cosa il movimento ininterrotto di rotazione di una specie di mota scivolosa grigioverdastra che riflette con violenza la luce solare; ma quando l’apparecchio scende ancora fino a sfiorare la «schiena del pitone», quando le creste del «burrone» in cui si cela il longo appaiono come il ciglio di faglie geologiche, ci si accorge allora che i movimenti sono molto più complessi, esiste una circolazione mediana con dei rivoli scuri, e a volte il «manto» esterno è lucido come uno specchio che riflette il cielo e le nuvole, a volte è perforato da eruzioni di gas provenienti dall’interno semiliquido. A poco a poco diventa evidente che è in funzione lì sotto il centro di forze che divarica e che solleva verso l’alto i due versanti gelatinosi che lentamente cristallizzano.

Ma ciò che era ovvio per l’occhio, non poteva essere accettato senza prove dalla scienza. Per quanti anni si è discusso su che cosa succedeva ai margini dei longhi che a milioni solcano la superficie dell’oceano vivo! Si pensava che fossero organi mostruosi nei quali avvenivano processi di respirazione o il trasporto di materie nutritive: solo la polvere delle biblioteche sa tutto quel che si è detto in proposito. Esperienze laboriose e talvolta pericolose hanno a mano a mano eliminato queste ipotesi. Oggi si parla solo di longhi, formazioni, in fondo, semplici e relativamente stabili, poiché la loro esistenza si conta a settimane: cosa, questa, quasi eccezionale.

Più complicati, e capricciosi nella forma, sono i mimoidi.

Non si esagera dicendo che Giese si era dedicato a questi con un vero amore, studiandoli, descrivendoli e impegnandosi fino all’ultimo per indovinarne l’origine. Con quel nome riuscì a rendere l’idea di ciò che in essi risulta più caratteristico per l’uomo: una certa predisposizione a imitare le forme circostanti, vicine o lontane.

Un giorno, nelle profondità dell’oceano, una macchia circolare comincia a scurirsi, come se si ricoprisse di catrame.

Dopo alcune ore si divide in strati e contemporaneamente sale verso la superficie. L’osservatore giurerebbe che si stia svolgendo una lotta violenta, poiché intorno, da ogni direzione, giungono come delle labbra chiuse, vive e muscolose, simili a crateri od onde circolari, che si uniscono, s’innalzano e ricadono. Ogni caduta di una di quelle masse, del peso di centinaia di tonnellate, è accompagnata da un boato, poiché tutto avviene su scala infinitamente grande. L’immensa massa scura è spinta verso il basso, ogni colpo successivo sembra appiattirla e scioglierla; dai singoli strati, che pendono come ali bagnate, si stacca una sorta di grappoli, che poi prendono la forma di collane e che, snodandosi, si riuniscono e scorrono verso l’alto, mentre dalle zone superiori cadono in cerchio, senza tregua, i successivi anelli d’onda.

Questo gioco dura a volte giorni, a volte mesi e a volte non ha alcun seguito. Lo scrupoloso Giese chiamò questa variante «mimoide iniziale»; non si sa da dove avesse attinto la certezza che lo scopo finale di ogni cataclisma fosse il «mimoide maturo»; ciò significava una colonia di polipi con pelle scura (di solito più grandi di una città) il cui fine era l’imitazione delle forme esterne…

Naturalmente non mancò un altro solarista, di nome Uyvens, che chiamò l’ultima fase «degenerata», cioè un decadimento, una necrosi, e la selva di forme nascenti un visibile indizio di rottura col rigoglio di potenza della matrice originaria.

Giese comunque, come in tutte le sue descrizioni delle creazioni di Solaris, si comportava come una formica, che per nessun motivo cambia il ritmo del passo, e catalogava in bell’ordine ogni fase di apparizione di mimoide secondo il grado di perfezione raggiunta.

Visto dall’alto il mimoide appare simile a una città, ma ciò è frutto d’immaginazione, provocato dalla ricerca di una qualsiasi analogia con ciò che si conosce. Quando il cielo è limpido, tutte le forme stratificate e le loro palizzate sono circondate da una massa d’aria riscaldata, che provoca un ondeggiamento e un tremolio di forme difficili da definire. La prima nube che attraversa l’azzurro (parlo d’azzurro per pura abitudine, dato che qui l’azzurro, il cielo, è color rosso ruggine oppure terribilmente bianco durante il giorno del sole azzurro) sembra costituire un richiamo. Il tegumento elastico comincia di colpo a crescere, staccandosi dalla base e impallidendo, e in capo a pochi minuti imita perfettamente la nube. Questo «oggetto» immenso manda un’ombra rossa e certi pinnacoli del mimoide si piegano, con un movimento che va sempre in direzione opposta a quello della nube vera.

Penso che Giese sarebbe stato pronto a tutto, pur di capire questo fenomeno. E queste creazioni «singole» del mimoide erano ancora una bazzecola a confronto dell’attività travolgente cui era «stimolato» in presenza degli oggetti e forme di provenienza terrestre che gli si presentavano. La riproduzione di forme esterne coinvolgeva tutto ciò che si trovava in un raggio di una quindicina di chilometri. Spesso i mimoidi fornivano riproduzioni ingrandite o deformate, spesso davano luogo a caricature grottesche, soprattutto quando si trattava di macchine.

Fu subito evidente che il materiale base era sempre quella pallida massa che, scagliata in aria, invece di ricadere rimaneva sospesa, collegata al fondo da una specie di cordoni ombelicali grazie ai quali si spostava pigramente, restringendosi o allargandosi, e componeva con disinvoltura disegni complessi. Un aereo, una rete o un palo venivano riprodotti con precisione. Invece i mimoidi non riproducevano esseri viventi, nemmeno le piante che gli studiosi avevano portato su Solaris per esperimento. Per contro, i manichini o le statuette, di legno o di qualsiasi altro materiale, venivano subito copiati.

Qui, sia detto tra parentesi, si arrestava purtroppo l’eccezionale «docilità» dei mimoidi nei confronti degli esploratori solaristi. I mimoidi maturi avevano giornate di pigrizia durante le quali pulsavano lentamente. Questo battito non era neanche visibile a occhio nudo, poiché il ritmo di una singola fase di pulsazione avveniva in un arco di due ore: lo si era scoperto solo attraverso i filmati.

In tali circostanze un mimoide, specialmente se vecchio, si prestava perfettamente a essere visitato, poiché il suo zoccolo di sostegno, immerso nell’oceano, come le protuberanze di tale base, aveva una relativa solidità che permetteva all’uomo di posarvisi con sicurezza.

Si poteva stare nelle vicinanze di un mimoide anche durante le sue giornate «lavorative», ma la visibilità era ridotta a zero, visto che, come neve bianca, la materia colloidale cadeva dalle lacerazioni del tegumento sospeso sopra le protuberanze. Del resto, da vicino, le forme riprodotte dal tegumento non si potevano riconoscere, a causa delle dimensioni gigantesche, nell’ordine di grandezza delle montagne. Inoltre uno spesso strato di neve colloidale ricopriva rapidamente la base del mimoide, formando un tappeto fangoso che s’induriva solo dopo qualche ora (la crosta sopportava il peso d’un uomo pur essendo molto più leggera della pomice). Infine, senza un adeguato equipaggiamento, c’era il rischio di smarrirsi nel labirinto di strutture nodose e spaccate, simili talvolta a colonnati rattrappiti, talvolta a geyser pietrificati. Anche di giorno si rischiava di smarrirsi, perché i raggi non filtravano attraverso la superficie dove si creano in continuazione forme diverse.