Mi piaceva l’idea delle variabili, cioè una cosa che in sé non significa niente, ma prende il valore che le dai tu.
Quell’onnipotente X. Mi vedevo come una X vivente, un niente, che può essere tutto.
Una notte sono tornato alla King con tutti i libri e li ho lasciati davanti al recinto.
Ho tenuto solo il testo di algebra, perché volevo esercitarmi nelle equazioni. Sapevo di dover tenere la mente occupata, sennò si indeboliva, ma ero stanco di libri di testo, avevo voglia di vacanze. Volevo leggere cose più varie, enciclopedie, biografie di personaggi importanti. Mi mancava il mio libro sui presidenti.
Niente romanzi, niente fantascienza, non mi interessano le cose che non sono vere.
Vicino a Los Feliz ho trovato una biblioteca, a pochi isolati sulla Hillhurst, un posto strano, senza finestre, nel bel mezzo di un centro commerciale. Dentro c’era uno stanzone con manifesti colorati di città straniere al posto delle finestre e poca gente, anziani che leggevano il giornale.
Io ero vestito bene e avevo il mio libro di algebra, carta, matita e uno zaino. Seduto a un tavolo in fondo ho finto di fare equazioni mentre mi guardavo intorno.
La tipa che doveva essere il capo era vecchia e dall’aria cattiva come la bibliotecaria di Watson, ma se ne stava al posto suo a parlare al telefono. La giovane messicana con i capelli lunghissimi era quella che si occupava dei libri. Si è accorta di me ed è venuta tutta sorridente a chiedermi se avevo bisogno di aiuto.
Io ho scosso la testa e ho continuato con le mie equazioni.
«Ah», ha fatto lei, piano piano, «compiti di matematica, eh?»
Io ho alzato le spalle, senza rispondere, allora lei ha smesso di sorridere e se n’è andata.
La volta dopo ha cercato di incrociare il mio sguardo, ma io ho continuato a fare finta di niente e dopo un po’ mi ha lasciato perdere anche lei.
Ho cominciato ad andare in biblioteca regolarmente, una o due volte la settimana, sempre dopo l’una, cominciando con i compiti finti e poi cercando negli scaffali. Quando trovavo qualcosa di interessante, leggevo per due ore.
Mi capitava anche di finire un libro intero in due ore. La terza settimana ho trovato lo stesso identico libro di Jacques Cousteau che avevo a Watson e ho pensato: sono senz’altro nel posto giusto.
Poco dopo ho trovato l’altro libro sui presidenti. È stato il primo che ho portato via. È l’unico che ho conservato e ancora non so bene perché. Lo tratto con la massima cura, lo proteggo con una plastica di tintoria. Dunque non è un vero reato.
Però ci sto male lo stesso. Continuo a dirmi che un giorno o l’altro, quando sarò grande e avrò dei soldi, regalerò dei libri alla biblioteca. Qualche volta mi domando se durerò abbastanza a lungo da diventare grande.
Ora, dopo quello che ho visto, tutto mi sembra insicuro. Forse è ora di andare via dal parco. Ma dove?
Inciampo in un sasso, ma riesco a mantenermi in equilibrio. Finalmente, ecco il Cinque, con l’odore dello zoo che arriva dal groviglio di felci. Ora devo nascondermi, riposare un po’, pensare un po’.
Ho certe cose molto serie a cui pensare.
10
Nel vedere la casa di Ramsey, Petra frugò nei ricordi del suo corso di storia dell’architettura cercando l’etichetta giusta. Spagnoleggiante pseudopalladiano? Eclettico mediterraneo postmoderno? Neocoloniale d’avanguardia?
Una montagna di stucco.
La costruzione era appollaiata su una vetta così scoscesa da torcersi il collo per vederne la cima. Rosa, come aveva promesso il guardiano, di una sfumatura un po’ più scura di quella delle colonne, anch’essa dietro colonne e cancello, una gabbia dentro una gabbia. La pavimentazione del viale che saliva alla casa era disegnata in modo da sembrare di adobe, fiancheggiata da palme messicane. Davanti all’ingresso era parcheggiata una Lexus nera e scintillante.
Superato il cancello, si aprì ai loro occhi mezz’ettaro di pendenza erbosa. La casa era di due piani e mezzo, quest’ultimo rappresentato da un campanile costruito sopra i battenti in quercia della porta d’ingresso. La campana in dimensioni naturali sembrava una replica di quella di Filadelfia. Due ali dell’edificio si aprivano su linee oblique rispetto alla facciata, come quelle di un tacchino troppo cotto. Innumerevoli finestre dalle forme più strane, alcune con vetri colorati. Verande e balconi erano protetti da ringhiere in ferro e le tegole erano color ruggine dorato, anticate artificialmente. A destra della porta d’ingresso c’era una grande rimessa con un portellone enorme: adatta a ospitare la limousine aziendale di Ramsey, giudicò Petra.
Nessun’altra abitazione nei paraggi. Re della montagna.
Altre palme crescevano dietro la villa, creando una sorta di capigliatura new age al di sopra del profilo del tetto. Si sentiva odore di cavalli, ma non ne vide. I Santa Susanna facevano in lontananza da quinta color carta da zucchero. Niente querce virginiane, lì, c’erano troppi innaffiatori.
Stu arrivò con il muso della Ford a ridosso del cancello. «Sei pronta, o tu, latrice di infauste notizie?»
«Oh sì.»
Fu lui a suonare. Per un secondo non accadde niente. Poi rispose loro una voce femminile.
«Sì.»
«Il signor Ramsey, prego.»
«Chi è?»
«Polizia.»
Silenzio. «Un momento.»
Trascorse un lungo minuto durante il quale Petra si girò a guardare la macchina dell’ufficio dello sceriffo. Seduto al volante, Hector De la Torre stava dicendo qualcosa che non seppe decifrare. Banks lo stava ascoltando, ma poi la vide e la salutò alzando le dita della mano, proprio nel momento in cui la porta si apriva e sull’ingresso appariva una tozza ispano-americana in divisa rosa e bianca. Scese per qualche passo sul vialetto guardandoli con attenzione. Fra i cinquanta e i sessant’anni, con gambe molto storte. Portava i capelli stretti dietro la nuca e il suo volto era scuro e statico come un calco in bronzo. Azionò un telecomando.
Il cancello si aprì e le due automobili entrarono. Scesero tutti e quattro. L’aria era di qualche grado più calda che a Hollywood. Solo ora Petra notò uno steccato alla sinistra della villa, un recinto per cavalli. Animali in movimento comparvero e scomparvero alla sua vista.
Caldo secco, si sentiva inaridire gli occhi. A nord un piccolo aeroplano sorvolava le montagne. Da una macchia di sicomori si levò bruscamente uno stormo di cornacchie che si dispersero starnazzando, come impaurite.
«Signora…» disse Stu mostrando il distintivo alla domestica.
Lei lo fissava.
«Io sono il detective Bishop e questa è la detective Connor.»
Nessuna risposta.
«E lei chi è, signora?»
«Estrella.»
«Il cognome, prego.»
«Flores.»
«Lei lavora per il Signor Ramsey, signora Flores?»
«Sì.»
«Il signor Ramsey è qui, Signora Flores?»
«Gioca a golf.»
Sembrava spaventata, pensò Petra. Ansia da immigrata? A meno che avesse intenzione di concorrere a qualche carica pubblica, Ramsey non aveva motivo di preoccuparsi dei contributi, perciò era possibile che fosse una clandestina.
O qualcos’altro. Sapeva qualcosa? Problemi in famiglia Ramsey? Movimenti sospetti di Ramsey durante la notte precedente? Petra trascrisse il nome della donna di servizio e vi aggiunse un asterisco. Da ricontattare.
Chiuse il taccuino e sorrise. Estrella Flores non se ne accorse.
«Il signor Ramsey non è qui?» chiese Stu.
In tal caso era in contraddizione con quanto affermato dal guardiano.