Era ora di colazione. Wembley era solo, diretto probabilmente al ristorante degli studios.
Stu gli si avvicinò da dietro. «Ciao, Scott.»
Wembley si girò e il suo volto lungo e pallido s’irrigidì. «Stu. Ehi.»
Come la gran parte dei vicedirettori, Wembley era poco più di un bambino, uscito da un paio d’anni da Berkeley con una laurea in scienze dello spettacolo, che accettava la paga esigua, gli orari di lavoro estenuanti e le prepotenze di quelli che contavano in cambio del titolo pomposo e della possibilità di fare conoscenze.
Come molti ragazzini, gli mancavano spina dorsale e capacità di giudizio.
Si strinsero la mano. Wembley indossava il costume del cinematografico: jeans larghi e ampia camicia a scacchi con bottoncini al colletto che sembrava troppo calda per quel clima e troppo costosa per il suo portafogli. Il Rolex d’acciaio lasciò Stu ancor più perplesso.
Lo trovava dimagrito rispetto all’anno precedente, con un volto ossuto e androgino adatto a una pubblicità di Calvin Klein. Brufoli sulle guance. Una novità.
La mano che Stu afferrò era molle e fredda e umida. La fronte liscia era imperlata di sudore. Camicia troppo pesante. Camicia a maniche lunghe, con i polsini abbottonati.
E naturalmente gli occhi. Quelle pupille. Povero Scotty, non aveva imparato niente.
Durante il mese trascorso da Stu sul set, Wembley si era adoperato in ogni modo per stargli vicino, lo aveva tempestato di domande, volendo sapere com’erano le strade nella realtà. Perché stava lavorando a un soggetto, come tutti, anche se il suo vero sogno era di diventare uno Scorsese: sono i registi a comandare.
Stu era stato paziente con lui, riconoscendo in lui una commovente combinazione di spacconeria da generazione X e ignoranza totale.
Poi, l’ultimo venerdì di riprese, dopo il lavoro, si era trattenuto per compilare certi moduli, rifugiandosi in un teatro di posa. Aveva udito dei rantoli e in un angolo della gigantesca sala aveva trovato Wembley raggomitolato per terra, seminascosto da alcune quinte, con una siringa piantata nel braccio.
Il giovane non lo aveva sentito arrivare, aveva gli occhi chiusi e le vene gli affioravano come capelli d’angelo nel lungo braccio scarnito. La siringa era di quelle economiche, di plastica, usa e getta.
«Scott!» aveva esclamato e il ragazzo aveva aperto gli occhi sulla peggior scena possibile per un tossicodipendente. Si era strappato l’ago dalla vena e aveva gettato la siringa per terra, dov’era rimbalzata di punta lasciando sul cemento una gocciolina di liquido lattiginoso.
«Cristo», aveva mormorato Stu.
Wembley era scoppiato in lacrime.
Dilemma morale.
Alla fine Stu non aveva arrestato il ragazzo, sebbene così si rendesse responsabile di una lampante violazione del regolamento dipartimentale: «Se si è testimoni di un reato…»
Aveva finto di credergli quando Wembley aveva dichiarato che era la prima volta, solo un esperimento. Gli altri due segni che aveva sul braccio smascheravano la sua bugia, ma erano entrambe punture visibilmente vecchie, dunque almeno non si bucava con regolarità… ancora. Stu aveva confiscato l’attrezzatura che aveva trovato in una tasca del suo giubbotto. Aveva buttato tutto quanto in uno dei cassonetti del centro di produzione, cacciandosi così in una situazione legale molto più rischiosa della sua, ma grazie a Dio Wembley era troppo ingenuo da saperlo.
Poi aveva caricato Wembley in macchina, lo aveva portato al Go-Ji sull’Hollywood Boulevard, lo aveva mollato su un sedile di un séparé in fondo al locale e lo aveva riempito di caffè nero (tecnicamente droga anche quella, dal suo punto di vista), quindi aveva lasciato che quello stupido lattante vedesse con i suoi occhi com’erano ridotti i tossici incalliti che frequentavano quel putrido ristorante.
La dose nella siringa doveva essere stata leggera, perché Wembley aveva gli occhi limpidi e l’ambiente lo stava mettendo a disagio. O forse l’adrenalina scaricata dalla paura aveva sedato l’oppiaceo.
Gli aveva ordinato un hamburger e lo aveva costretto a consumarlo mentre gli recitava la doverosa, severa ramanzina. Di lì a poco Wembley aveva cominciato a raccontare borbottando la sua triste biografia, gli orrori di crescere in una famiglia di Marin County, ricca, composta da genitori entrambi pluriconiugati, che rifiutavano di porgli dei limiti; la solitudine, il senso di alienazione e la paura del futuro che lo avevano assalito dopo il college. Stu fingeva di prenderlo sul serio mentre dentro di sé si chiedeva se sarebbe stato così anche con i suoi figli quando avessero avuto la sua età. Dopo un’ora Wembley giurava solennemente castità, carità e lealtà alla bandiera.
Stu lo aveva riaccompagnato allo studio. Wembley era eccitato, era sembrato sul punto di volerlo baciare, colmo di una gratitudine quasi femminile, e Stu si era chiesto se, oltre a tutto il resto, fosse anche gay.
Dopo di allora Wembley lo aveva evitato. Pazienza. Aveva contratto con lui un grosso debito e se non avesse mollato per tornare a casa, era possibile che un giorno o l’altro Stu avrebbe avuto occasione di servirsi di lui.
Ora quel giorno era arrivato. Patapam!
«Piacere di rivederti, Scott.»
«Anche per me.» Pessimo mentitore. Gli tremò la bocca e tirò su con il naso. Naso rosso. Quegli occhi. Stupido piccolo idiota.
«Come va?»
«Benissimo. Che cosa posso fare per lei, detective?»
Stu passò un braccio intorno alle spalle ossute di Wembley. «Un bel po’, puoi fare, caro Scott. Troviamoci un posticino dove chiacchierare.»
Lo guidò a una panchina. «Ho bisogno di informazioni su Cart Ramsey», gli spiegò. «Informazioni riservate.»
«Io so solo che hanno parlato di lui al telegiornale.»
«Nessuna vociona o vocina in circolazione da queste parti?»
«Perché dovrebbero essercene?»
«Perché non c’è pettegolo più pettegolo di uno del cinema.»
«Be’, se si parla di lui, a me non è arrivato niente.»
«Mi stai dicendo che nessuno ha niente da raccontare su Ramsey?»
Wembley si morsicò l’interno di una guancia. «Solo… quello che dicono tutti.»
«Cioè?»
«Che l’ha ammazzata lui.»
«E perché dovrebbero dirlo, Scott?»
«La picchiava, no? Forse lui voleva che lei tornasse a stare con lui e lei gli ha detto di no.»
«Questa teoria è tua o di qualcun altro?»
«Di tutti. Anche la vostra, immagino. Se no perché sarebbe qui adesso?»
«Dimmi, Ramsey ha una reputazione di qualche genere?»
Wembley ridacchiò. «Come attore no. Non so un cavolo di lui. Tutta quanta questa faccenda non m’interessa.»
«Ebbene, caro Scott, comincerà a interessarti da adesso», ribatté Stu. «A interessarti moltissimo.»
19
Ottima giornata oggi, sono proprio contento perché mi è andata bene con il mais. Ora posso tornarmene al Cinque a fare progetti.
Vado verso il cancello con il lucchetto aperto, vedo qualcuno che mi saluta.
I nonnetti strambi. Sono fermi là sulla curva. Il vecchio ha la macchina fotografica in mano. Agitano le braccia tutti e due e lei grida: «Giovanotto? Ci puoi aiutare?»
Io non voglio attirare l’attenzione mettendomi a correre o a comportarmi in modo strano, così ci vado.
«Eccoti qua, bravo», dice lui. Com’è combinato. Ha una maglietta dei Dodgers e i calzoni corti e calzette e scarpe e un cappello celeste. Ha la pelle pallida e un naso grosso e bitorzoluto come quelli del Sunnyside.
La sua macchina fotografica è enorme, in un grande astuccio nero pieno di fibbie e bottoni automatici. Sua moglie ne ha una uguale.