Ramsey contemplò di nuovo la parte del suo corpo responsabile di quella disavventura, poi distese le dita. «Non l’ho mai più fatto… Io mi prendo qualcosa da bere. Sicura che lei non vuole?»
«Sì.»
Restò via qualche minuto e tornò con una lattina di Diet Sprite. Strappò la linguetta, si sedette e bevve.
«Mi ha detto che è andato allo stagno», gli ricordò Petra.
«Non mi pare di averne visto uno.»
«È perché eravamo all’altra nostra casa.» Nostra, non mia. Un’altra indicazione che lui non aveva tranciato tutti i legami. E nemmeno era involontariamente scivolato in espressioni distaccate, come accade talvolta agli assassini nel bel mezzo delle loro ricostruzioni cronologiche, quando cominciano con noi e passano a lei e io. Petra aveva letto su un rapporto dell’FBI che l’analisi del linguaggio offre spesso spunti rivelatori. Lei non ne era convinta, ma era di mente aperta.
Ramsey bevve un altro sorso, ora con un atteggiamento malinconico che sembrava sincero.
«La vostra altra casa?»
«Abbiamo un posto per i fine settimana a Montecito. Per la verità è più grande di qui. Una vera follia, quanto a spese per la manutenzione. Lì c’è un piccolo stagno dove mi piaceva andare a distendere i nervi.»
«Le piaceva?»
«Non ci vado più molto spesso. La solita vecchia storia con le seconde case. Ho sentito che accade anche ad altri.»
«Non vengono utilizzate?»
Lui annuì. «Uno pensa di essersi costruito un rifugio e piano piano diventa solo un’altra incombenza. L’errore è stato già all’inizio, quella casa era troppo grande. Dio solo sa se non è già grande questa.»
«Dunque lei non ci va spesso.»
«L’ultima volta dev’essere stato…» Alzò gli occhi al soffitto. «Saranno passati mesi.»
Il suo corpo ebbe un sussulto improvviso, quasi uno spasmo che gli fece riabbassare di scatto la testa e guardare diritto davanti a sé. I suoi occhi incontrarono quelli di Petra. Erano umidi. Se li asciugò alla svelta.
«L’ultima volta che ci sono stato con Lisa», dichiarò, «fu quella volta. Non ci siamo mai più tornati insieme. Qualche giorno dopo la messa in onda del programma se ne andò di nuovo e mi fece recapitare la richiesta di divorzio. Io credevo che ci avesse messo una pietra sopra.»
Petra si morsicò la lingua e pensò: il pestaggio era avvenuto a Montecito. Avrebbe chiamato Ron Banks per risparmiargli ulteriori inutili ricerche.
Ramsey si resse di nuovo il mento nella mano.
«La ringrazio», disse Petra. «Tutto questo mi è stato utile. Ora, se non le spiace, vorrei che parlassimo della notte in cui Lisa è stata assassinata.»
27
Mildred Board avrebbe voluto lavare il pavimento della cucina.
Anni fa non sarebbe trascorso un solo giorno senza che lo passasse. Un’incombenza di un’ora, nell’acqua insaponata fino ai gomiti dalle sei alle sette del mattino. Eccellente occasione per pensare senza la distrazione dello sciacquio o dei movimenti circolari delle filacce sul linoleum giallo.
Dopo che era cominciata l’artrosi, tutto quello sfregare carponi era diventato insostenibile e poteva dirsi fortunata se riusciva a lustrare quel pavimento una volta alla settimana.
Richiedeva attenzione anche il parquet in sala da pranzo. Il legno era scolorito, imbarcato e crepato in più punti, da tempo avrebbe avuto bisogno di un restauro.
Era visibile ogni singolo centimetro di assicelle; la sala da pranzo era vuota, tutti i mobili della padrona erano stati spediti a quei tizi di Sotheby’s a New York.
Avvertì una spiacevole tensione intorno agli occhi. Trasse un respiro e raddrizzò la schiena. «Si fa quel che si può», dichiarò con fermezza. Con fermezza e vigore. Nessuno che la potesse udire. La padrona era di sopra. C’erano tante altre stanze tra loro, tutte chiuse, tutte vuote.
La cucina, con i suoi vecchi mobiletti di ciliegio, i frigoriferi industriali e i tre forni, non avrebbe stonato in un albergo. Restavano stoviglie e posateria nonché il servizio di porcellana prediletto della padrona e qualche pezzo d’argento di valore sentimentale in dispensa. E la magnifica pressa per le lenzuola che quelli di Sotheby’s avevano detto di non aver nessuna speranza di piazzare. Ma gli oggetti veramente belli, i tesori che lui e la padrona avevano comperato in Europa, non c’erano più. Avevano fruttato bene, anche tolte la commissione d’asta e le tasse. Mildred aveva visto l’assegno, sapeva che tutto sarebbe andato per il meglio. Per un po’.
Lei e la padrona non avevano mai discusso la… situazione finanziaria. La padrona continuava a pagarla, aveva voluto assolutamente continuare a versarle il salario intero anche se il Signore sapeva quanto poco lo meritasse: a che cosa serviva in quelle condizioni?
Pensieri negativi. Via, via.
Notò una macchia di umidità sull’armadietto sotto il lavandino, trovò uno straccio, l’asciugò.
C’erano stati tempi in cui la cucina ferveva di attività. Era quando la padrona e lui intrattenevano in continuazione, andirivieni di fornitori, camerieri ansiosi, tegami a fumare, i piani di lavoro in acciaio inossidabile ricoperti di pietanze salate e di dolci. Non ultime fra questi ultimi le torte di Mildred. Di tutto ordinava all’esterno la padrona, ma non le torte, quelle erano di Mildred, in primo luogo la torta di prugne, quella di mele Dorset e quella di frutti di bosco. Le adorava lei, le adorava lui. Tutti le adoravano.
Mildred cucinava e faceva le pulizie nella grande casa da quarantun anni, era arrivata quando la padrona e lui ci vivevano da due. Anche allo chalet a Lake Arrowhead, ma i weekend al lago erano stati solo occasionali, anche quando lui era vivo, e spesso la padrona faceva venire gli operai di una ditta di pulizie a togliere i teli e a manutenzionare i rubinetti.
Erano più di dieci anni che nessuno usava più lo chalet. Nessuno c’era più andato dopo quel terribile fine settimana.
Mildred sospirò e si sprimacciò la capigliatura. Quarantun anni a lucidare l’argenteria, lavare con la schiuma le moquette, pulire quasi cento finestre, anche quelle di vetri colorati che aveva comperato lui e provenivano da una chiesa in Italia. Oh, la padrona le metteva sempre a disposizione un’altra ragazza, ma nessuna resisteva a lungo.
Per i primi dieci anni aveva avuto per compagna Anna Joslyn, quel povero scricciolo arrivato dall’Irlanda. Non del tutto a fuoco, quanto a cervello, ma ottima lavoratrice e forte come una cavalla da riproduzione. Poi quel donnone danese, così chiassoso e con quel seno così volgare. Quella non aveva funzionato affatto. Ah, che errore!
Dopo la danese l’agenzia aveva mandato solo messicane. Brave lavoratrici, per la gran parte, e generalmente oneste, anche se Mildred teneva gli occhi aperti. Alcune parlavano inglese, altre no. Restava comunque un problema loro. Mildred si rifiutava di imparare lo spagnolo, le bastavano inglese e francese, grazie tante. All’orfanotrofio la signorina Hammock aveva puntato tutto su inglese e francese e per ottant’anni le sue diplomate avevano prestato servizio nelle più rinomate famiglie di Gran Bretagna e del Continente.
Le messicane non erano brutta gente, ma erano quelle che duravano di meno. Avevano sempre da correre in Messico per qualche crisi familiare, figli, mariti, fidanzati, Ognissanti… e chi riusciva a tenere a mente tutte quelle festività cattoliche? Mildred avrebbe preferito giovani donne propriamente istruite e timorose di Dio. Ma si fa buon viso…
Sapeva bene dov’era il problema: non c’erano più orfanotrofi. Tutti quei bambini strappati dall’utero o assegnati dall’assistenza sociale a certe incapaci sciattone. Bastava leggere il giornale.
Era finita l’epoca delle ragazze messicane. Non ce n’era più bisogno. Né di loro né di altre.
Mildred aveva settantatré anni e si chiedeva se sarebbe vissuta abbastanza da vedere con i propri occhi il crollo totale di tutto ciò che era razionale e giusto.