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Mio padre, come ho detto, stava scegliendo le patate da portare a Kitchener Street e non sentì Hilda che arrivava lungo il sentiero. Era una giornata luminosa, quella domenica, ma fredda. Quando sollevò gli occhi all’improvviso, la vide inquadrata nel vano della porta, con la luce che le filtrava tutt’intorno, i capelli scompigliati, il petto ansimante per lo sforzo. Lui rimase immobile, chino sul canestro nel buio, poi si voltò colpevolmente verso questa donna con cui, ormai, aveva più di una volta immaginato di unirsi. Con aria tranquilla, lei osservò l’interno del casotto. Lentamente mio padre si alzò, senza rendersi conto che aveva una patata in ciascuna mano, anche se le stringeva con tale forza che le nocche gli erano diventate bianche. Le mani di Hilda erano sprofondate nelle tasche della sua ampia pelliccia. «Signor Cleg?» disse con voce roca, alzando il mento e le sopracciglia in una sorta di gesto interrogativo.

«Sì,» disse mio padre, trovando finalmente la voce.

«Horace Cleg?» disse lei. «L’idraulico?»

«Esatto,» disse mio padre, buttando le patate nel canestro. Aveva ritrovato il suo equilibrio.

«Ho qualche problema con le mie tubature,» disse Hilda. «Mi hanno detto che lei potrebbe aiutarmi.»

* * *

La relazione di mio padre con Hilda Wilkinson incominciò propriamente quando lui andò a lavorare alle sue tubazioni. Lei non si era soffermata nell’orto; si erano dati un appuntamento, comportandosi entrambi in modo adulto e parlando solo di affari, e poi, senza un solo scoppio della sua risata roca, senza alzare quel grosso mento rosato, lei se n’era andata, ondeggiando e oscillando a destra e a sinistra mentre avanzava lungo il sentiero. Mio padre l’aveva guardata dalla porta del casotto, poi era tornato dentro e si era lasciato cadere sulla poltrona. Presa una patata dal canestro alle sue spalle, l’aveva rigirata lentamente fra le dita, riflettendo su ciò che era appena accaduto.

Hilda viveva sopra un negozio di tabacchi a Spleen Street, una strada che corre sotto i gasometri dalla parte più lontana dal canale; condivideva l’appartamento con una donna di nome Nora Temple, la persona col cappellino che mio padre aveva notato in sua compagnia al Dog and Beggar. Pochi giorni dopo, quindi, lo vediamo appoggiare la bicicletta a un lampione davanti al tabaccaio. Guardando in alto, verso le cupole sporgenti che gettavano un piccolo mare d’ombra sui negozi e sulle case di Spleen Street, entrò nel negozio e, passando dal retro, salì una rampa di scale strette e ripide. Quando fu a metà di quegli scalini accadde una cosa strana. Da sopra, si sentì un pesante suono di passi che scendevano; poi un uomo grasso con uno spesso soprabito scuro col bavero rialzato scese rumorosamente e, senza una parola, urtò mio padre, spingendolo contro il corrimano e facendolo quasi cadere. Un momento dopo, lo si sentì attraversare il negozio e uscire in strada, mentre la campanella della porta tintinnava al suo passaggio. Mio padre rimase stupefatto e irritato; aggrottò la fronte e riprese a salire. Al suo bussare, la porta dell’appartamento si socchiuse e, attraverso la fessura, egli scorse Nora, che rimase ostile e sospettosa finché lui non disse che era l’idraulico. Sorsero alcune difficoltà nell’aprire la porta, perché Nora non voleva che i gatti uscissero: ne avevano dozzine, creature rognose che miagolavano e perdevano pelo in continuazione. Così mio padre entrò di sbieco attraverso un passaggio angusto e seguì Nora che si allontanava camminando pesantemente in un breve corridoio buio, reso molto stretto dai voluminosi cappotti appesi al muro con ometti e ganci, e ulteriormente ostacolata dai gatti che le si intrufolavano fra le gambe. In fondo al corridoio, Nora spalancò la porta del bagno. «Qui dentro,» disse. Ma prima che mio padre potesse entrare, una voce familiare parlò: «È l’idraulico?»

Si voltò. Lei era sulla porta della sua stanza. Indossava una vestaglia di un qualche materiale serico, molto stretta in vita, con la scollatura bassa. Si era appena spazzolata i capelli e fumava una sigaretta. Senza i tacchi, appariva tre o quattro centimetri più bassa di mio padre, e questo bastò per provocare in lui un vivido insorgere del ben noto calore. «’Sera,» disse, irrigidendosi di fronte a lei, con la borsa degli attrezzi in una mano e il berretto nell’altra. Lei era appoggiata allo stipite; mio padre notò che la stanza era piena di mobili. Il letto, disfatto, era enorme; la testata, un’asse scura di legno laccato inserita fra due massicce colonne con pomelli in cima. Ai piedi del letto — separata da esso da una scheggia di spazio —, c’era una toilette; il suo grosso specchio e le due ali laterali quasi cancellavano la finestra, che aveva come tenda un pezzo di tessuto sporco, attraverso il quale lui scorse la grande massa incombente dei gasometri; sopra la toilette, un caos di cosmetici e spazzole e spille e mollette e pezzi di elastici colorati. Fra il letto e la parete, da una parte, c’era un tavolino, anch’esso ingombro di oggetti femminili; dalle profondità di quella confusione emergevano una bottiglia di porto mezzo piena e un paio di bicchieri non lavati. Dall’altra parte, c’era una sedia, talmente coperta di gonne e calze e camicette e biancheria intima, che appariva piuttosto come un mucchio di stoffe, una collinetta di seta e cotone. Poi incominciò il martellamento: all’improvviso, una serie di forti clangori metallici nei tubi. «Lo sente?» disse Hilda. «Succede tre volte all’ora.»

«Colpo di maglio,» disse mio padre con tono breve e secco.

Hilda si mosse leggermente dallo stipite e soffiò il fumo verso il soffitto. «È così che lo chiamate?» disse.

Mio padre annuì. «Blocco nel tubo di sfiato. Non mi stupirebbe.»

Lei lo guardò con decisione. «Mi fa impazzire,» disse. «Può sistemarlo, idraulico?»

Mio padre tirò su col naso, assunse il suo atteggiamento da artigiano esperto, come a suggerire che era una questione di delicatezza e tatto. «Devo controllare l’impianto,» disse.

«Lei abita qui vicino, no?» disse Hilda.

«Kitchener Street.»

«Mi sembrava.» Si stava esaminando le unghie. «Credo di averla vista giù al Dog.» All’improvviso sbadigliò, stirò le braccia sopra alla testa e poi, con un pigro sorriso, le incrociò di nuovo sul petto. «Ha intenzione di restare qui nel corridoio tutto il giorno, allora?» disse. «Credevo che fosse venuto per sistemare le mie tubature.»

La sua pelle, notò mio padre, era di un rosa molto più pallido di quanto aveva pensato inizialmente, quasi bianca, e la sua vestaglia lasciava intravedere tutta la parte superiore del torso. Si accorse anche per la prima volta che il suo mento sporgeva in maniera davvero abnorme, ma la sua pelle era così chiara e i suoi capelli così splendidamente biondi (benché neri alla radice) che dopo un momento semplicemente non si notava più quella massiccia sporgenza, né il difetto di chiusura dei suoi denti inferiori. «Ci sarà un intoppo,» disse mio padre, sempre in piedi nel corridoio, col berretto in una mano e la borsa nell’altra. Poi, mentre Hilda si chinava per prendere il gatto che ronfava ai suoi piedi, lo vide. Fu un’occhiata, una chiara visione del suo seno solo per un istante, mentre la vestaglia si allargava in avanti: perfette sotto il tessuto serico, un paio di mammelle bianche a forma di coppa, con piccoli capezzoli rosa. Distolse lo sguardo. «Aria nei tubi,» disse — e in quel momento, di colpo com’era incominciato, il martellamento cessò.