La voce di Shara era piena di meraviglia. — Stanno… stanno danzando.
Guardai meglio. Se c’era uno schema, un disegno, in quel brulichio da mosche sull’immondizia, io non lo riconoscevo. — A me sembrano movimenti casuali.
— Charlie, guarda. Tutta quell’attività furiosa, eppure non si urtano e non urtano le pareti del loro involucro. Devono essere in orbite coreografate con la precisione di quelle degli elettroni.
— Gli atomi danzano?
Shara mi lanciò un’occhiata strana. — No, Charlie?
— Raggio laser — disse McGillicuddy.
Lo guardammo.
— Quei cosi devono essere plasmoidi… l’uomo con cui ho parlato ha detto che li hanno avvistati sul radar. Questo significa che sono gas ionizzati… quel genere di cose che produceva le segnalazioni degli UFO. — Ridacchiò, poi si trattenne. — Se poteste tagliare quell’involucro con il laser, scommetto che si potrebbe deionizzarli benissimo… e poi quell’involucro deve contenere il supporto vitale, qualunque cosa metabolizzino.
Mi girava la testa. — Allora non siamo indifesi?
— State parlando tutti e due come militari — esclamò Shara. — Vi dico che stanno danzando. I danzatori non sono combattenti.
— Andiamo Shara — gridai. — Anche se quei cosi fossero lontanamente simili a noi, quello che dici non può essere vero. Pensa ai combattimenti dei samurai, al karaté, al kung fu… sono danze. — Indicai lo schermo con la testa. — Tutto ciò che sappiamo di quelle braci animati è che viaggiano nello spazio interstellare. E questo basta per spaventarmi.
— Charlie, guardali — ordinò lei.
Li guardai.
Per Dio, non avevano l’aspetto minaccioso. Più li guardavo e più sembrava che si muovessero in una specie di danza, volteggiando in folli adagio troppo svelti perché l’occhio li seguisse. Non era una danza convenzionale… era più analoga a ciò che Shara aveva incominciato con Massa è un verbo. Avrei voluto mettere in funzione un’altra telecamera per creare il contrasto della prospettiva: e questo, finalmente, mi svegliò. Due idee mi affiorarono nella mente, e la seconda era necessaria per convincere Cox ad accettare la prima.
— Quanto pensi che siamo lontani dallo Skyfac? — chiesi a McGillicuddy.
Lui sporse le labbra. — Non siamo lontani. Non c’è stato altro che l’accelerazione di manovra. Probabilmente quei maledetti cosi sono stati attratti dallo Skyfac… dev’essere il segno di vita intelligente più visibile nel sistema. — Fece una smorfia. — Forse loro non vivono sui pianeti.
Mi tesi e attivai il circuito audio. — Maggiore Cox.
— Si tolga dal circuito.
— Le piacerebbe vedere quei cosi più da vicino?
— Dobbiamo restare dove siamo. E adesso la smetta di prendermi in giro e si tolga dal circuito altrimenti…
— Vuole ascoltarmi? Ho quattro telecamere mobili con telecomando, fonte d’energia autonoma e risoluzioni migliori delle sue. Sono nello spazio. Erano state preparate per registrare la prossima danza di Shara.
Cox cambiò subito marcia. — Può collegarle con la mia nave?
— Credo di sì. Ma dovrò tornare al banco centrale nell’Anello Uno.
— Allora non c’è niente da fre. Non posso legarmi a una trottola… e se dovessi combattere o fuggire?
— Maggiore… è molto lontano, ad arrivarci a piedi?
La domanda lo scosse un po’. — Un miglio o due, a volo d’uccello. Ma lei non è abituato a spostarsi nello spazio.
— Ho vissuto in condizioni d’imponderabilità per quasi due mesi. Mi dia un radar portatile e sono capace di atterrare su Phobos.
— Mmmm. Lei è un civile… ma, accidenti, ho bisogno di immagini video migliori. Permesso accordato.
E adesso, la prima idea. — Aspetti… c’è un’altra cosa. Shara e Tom devono venire con me.
— Assurdo. Non è una gita in comitiva.
— Maggiore Cox… Shara deve tornare al più presto possibile in un campo di gravità. L’Anello Uno andrà bene… anzi, sarebbe l’ideale, se entriamo dal «raggio» centrale. Shara può scendere molto lentamente e acclimatarsi a poco a poco, come un sub effettua la decompressine a gradi, ma all’incontrario. McGillicuddy dovrà venire per stare con lei… se Shara sviene e cade lungo il tubo, può rompersi una gamba anche in un sesto di gravità. E del resto, in fatto di attività extra-veicolari è più abile di noi due.
Cox ci pensò sopra. — Andate pure.
Andammo.
Il tragitto di ritorno all’Anello Uno fu molto più lungo di tutti quelli che avevamo effettuato io e Shara, ma con la guida di McGillicuddy lo compimmo con un minimo di manovre. L’Anello, la Champion e gli alieni formavano un triangolo equiangolo con i lati di circa un miglio e mezzo. Visti in prospettiva, gli alieni occupavano all’incirca il volume dello Shea Stadium. Non si fermarono e non rallentarono nelle loro pazze giravolte, ma sembrava che ci osservassero mentre attraversavamo l’abisso per raggiungere lo Skyfac. Ebbi la sensazione che un biologo studiasse gli strani movimenti d’una specie nuova. Noi tenevamo spente le radio delle tute per non distrarci, e questo mi rendeva un po’ più sensibile alla suggestione.
Lasciai McGillicuddy con Shara e scesi lungo il tubo a sei anelli per volta. Carrington mi stava aspettando nella sala d’ingresso, con due scagnozzi. Era facile capire che era spaventato a morte e cercava di nasconderlo con la rabbia. — Maledizione, Armstead, quelle telecamere sono mie!
— La pianti, Carrington. Se mette quelle telecamere nelle mani del miglior tecnico disponibile, che sono io, e se io metto i loro dati nelle mani del miglior statega dello spazio, Cox, può darsi che riusciamo a salvare la sua stramaledetta fabbrica. E la razza umana. — Mi mossi e lui si scostò per lasciarmi passare. Era prevedibile. Mettere in pericolo tutta l’umanità poteva essere dannoso per le pubbliche relazioni.
Dopo tutte le prove che avevo fatto non fu difficile dirigere a occhio quattro telecamere nello spazio, simultaneamente. Gli alieni ignorarono il loro avvicinarsi. La squadra comunicazioni dello Skyfac passava i miei segnali alla Champion e mi teneva collegato con Cox via audio. Seguendo le sue istruzioni inquadrai il pallone fra le telecamere e spostai la soggettiva come mi chiedeva lui. Il Quartier Generale del Comando Spaziale doveva registrare il video, ma non potevo sentire la loro conversazione con Cox, per fortuna. Gli trasmisi replay al rallentatore, primi piani, schermi divisi… tutto quello che potevo fare. I movimenti delle singole lucciole non sembravano particolarmente simmetrici, ma gli schemi incominciavano a ripetersi. Al rallentatore, l’impressione che danzassero era ancora più forte, e per quanto non potessi essere sicuro, mi sembrava che accelerassero il tempo. In un certo senso, pareva che la tensione drammatica della loro danza s’intensificasse.
E poi passai la soggettiva alla telecamera che includeva lo Skyfac sullo sfondo, e il mio cuore si svuotò, e urlai per il terrore primordiale… a metà strada fra l’Anello Uno e lo sciame di alieni, avanzava lentamente ma inesorabilmente una figura in tuta pressurizzata che doveva essere Shara.
Con tempismo teatrale, McGillicuddy apparve sulla soglia, appoggiandosi pesantemente all’ingegnere capo. Aveva la faccia stravolta dal dolore. Si reggeva su un piede solo. L’altra gamba era fratturata.
— Credo che non potrò… tornare alle esibizioni… dopotutto, — ansimò. — Ha detto… Scusami, Tom… sapevo che stava per darmi uno spintone… mi ha messo fuori uso. Oh, maledizione, Charlie, mi dispiace. — Si lasciò cadere su una sedia.