Mi arrivò la voce incalzante di Cox. — Cosa diavolo sta succedendo? Quello chi è?
Lei doveva essere inserita sulla nostra frequenza. — Shara! — urlai. — Torna qui!
— Non posso, Charlie. — La voce era sorprendentemente alta, e calmissima. — A metà del tubo mi sono incominciate le fitte al petto.
— Miss Drummond — urlò Cox, — se si avvicina di più agli alieni, l’ammazzo.
Lei rise, un suono allegro che mi gelò il sangue. — Sciocchezze, maggiore. Non si azzarderà a usare i raggi laser nelle vicinanze di quegli esseri. E poi ha bisogno di me come ha bisogno di Charlie.
— Sarebbe a dire?
— Questi esseri comunicano per mezzo della danza. È il loro equivalente della favella: dev’essere una specie di linguaggio dei segni sofisticato, come l’hula.
— Non può saperlo.
— Lo sento. Lo so. Diavolo, come si comunica, altrimenti, nello spazio privo d’aria? Maggiore Cox, io sono l’unica interprete qualificata che la razza umana abbia al momento. Quindi adesso, per favore, stia zitto in modo che io possa cercare d’imparare il loro «linguaggio».
— Io non ho l’autorità per…
Io feci una cosa straordinaria. Avrei dovuto piagnucolare e implorare Shara perché tornasse indietro, forse avrei dovuto indossare una tuta pressurizzata e volare per riportarla indietro. Invece dissi: — Ha ragione. Chiuda il becco, Cox.
— Cosa sta cercando di fare?
— Maledizione, non sprechi l’ultimo sforzo di Shara.
Cox se ne stesse zitto.
Panzarella arrivò, fece a McGillicuddy un’iniezione analgesica e gli ridusse la frattura alla gamba lì in quella stanza, ma io non vi badai. Per più di un’ora rimasi a guardare Shara che osservava gli alieni. Li osservavo anch’io, nel silenzio della disperazione, e non riuscivo assolutamente a seguire la loro danza. Mi sforzavo, cercavo di assorbire un significato dal loro volteggio pazzesco, ma non ci riuscivo. Il massimo che potevo fare per aiutare Shara era registrare tutto quel che succedeva, per una posterità ipotetica. Più volte lei proruppe in esclamazioni soffocate, e io avrei voluto chiamarla, ma non lo feci. Con un’ultima esclamazione, mise in funzione i razzi di spinta per portarsi più vicina allo sciame degli alieni, e rimase librata là molto a lungo.
Finalmente la sua voce arrivò attraverso l’altoparlante, dapprima impastata e confusa, come se parlasse nel sonno. — Dio, Charlie. È strano. Così strano. Sto incominciando a capirli.
— Come?
— Ogni volta che incomincio a comprendere una parte della danza, ci… ci porta un po’ più vicini. Non è esattamente telepatia. Ma io… li conosco meglio, ecco. Danzano ciò che sentono, gli imprimono una intensità sufficiente per farmi capire il significato. Sto afferrando all’incirca un concetto su tre. Da vicino è più forte.
La voce di Cox era gentile ma ferma. — Che cos’ha appreso, Shara?
— Che avevano ragione Tom e Charlie. Sono bellicosi. C’è una sfumatura d’arroganza, in loro… una convinzione di superiorità. La loro danza è una sfida. Dica a Tom che usano i pianeti.
— Cosa?
— Credo che in una fase del loro sviluppo siano corporei e legati ai pianeti. Poi, quando sono maturi… diventano queste lucciole, come i bruchi si trasformano in farfalle, e si dirigono nello spazio.
— Perché? — chiese Cox.
— Per trovare terreni da riproduzione. Vogliono la Terra.
Vi fu un silenzio che durò forse dieci secondi. Poi Cox parlò, senza alzare la voce. — Si allontani da loro, Shara. Voglio vedere cosa si può fare con i laser.
— No! — gridò lei, abbastanza forte per causare una distorsione di prim’ordine nell’altoparlante.
— Shara, come mi ha fatto notare Charlie, lei non è soltanto sacrificabile, ma è già sacrificata a tutti gli effetti pratici.
— No! — Questa volta fui io a gridare.
— Maggiore — disse Shara, in tono concitato, — non è il sistema giusto. Mi creda, loro sono in grado di sfuggire o di resistere a tutti i mezzi che la Terra può usare. Lo so.
— Morte e dannazione — disse Cox, — che cosa vuole che faccia? Lasciare che siano loro a tirare il primo colpo? In questo momento stanno venendo qui navi spaziali di quattro paesi.
— Maggiore, attenda. Mi dia tempo.
Cox incominciò a bestemmiare, poi s’interruppe. — Quanto?
Lei non rispose direttamente: — Se questa specie di telepatia funzionasse anche nell’altro senso… dev’essere cosi. Per loro non sono più strana di quanto lo siano loro per me. Probabilmente lo sono anche meno: ho la sensazione che abbiano viaggiato e visto molte cose. Charlie?
— Sì?
— Incomincia le riprese.
Lo sapevo. L’avevo capito dal primo momento che l’avevo vista nello spazio, sul monitor. E sapevo di che cosa aveva bisogno, adesso, lo capivo dal leggero tremito della sua voce. Era necessaria tutta la mia forza d’animo, ed ero contento di poterlo fare. Con allegria estremamente realistica le dissi: — In bocca al lupo, piccola, — e spensi il microfono prima che lei potesse sentire il mio singhiozzo.
E Shara danzò.
Incominciò adagio, l’equivalente di un esercizio al pianoforte con un solo dito, mentre cercava di stabilire un vocabolario di movimenti che gli esseri potessero comprendere. «Potete vedere», sembrava dire, «che questo movimento è una tensione di desiderio? Vedete che questo è una ripulsa, questo una rivelazione, e questo un’elisione graduata d’energia? Sentite l’ambiguità nel modo in cui distorco questo arabesque, sentite che la tensione si può risolvere così?»
E sembrava che Shara avesse ragione, che quelli avessero un’esperienza in fatto di culture disparate infinitamente maggiore della nostra, perché erano superbi linguisti del moto. Più tardi pensai che forse avevano scelto il moto come mezzo di comunicazione a causa della sua universalità. Comunque, mentre la danza di Shara incominciava ad intensificarsi, la loro prese a rallentare percettibilmente, fino a che rimasero librati nello spazio, immobili, ad osservarla.
Poco dopo, Shara dovette concludere che aveva definito i suoi termini in modo sufficiente almeno per una comunicazione rudimentale, perché incominciò a danzare veramente. Prima aveva usato soltanto i suoi muscoli e le masse degli arti. Ora aggiunse i razzi di spinta, uno alla volta o in combinazione. La sua danza divenne una danza vera: più di una collezione di movimenti, una cosa che aveva sostanza e significato. Era indiscutibilmente Stardance come l’aveva pre-coreografata, come aveva sempre avuto intenzione di eseguirla. Non era una coincidenza che avesse qualcosa da dire a esseri assolutamente alieni, qualcosa dell’uomo e della sua natura: era l’essenziale e suprema espressione della più grande artista della sua epoca, e aveva qualcosa da dire a Dio stesso.
Le luci delle telecamete facevano balenare d’argento la tuta pressurizzata, d’oro le bombole dell’aria sulle sue spalle. Si muoveva sullo sfondo nero dello spazio, intessendo la danza intricata in un movimento agevole che sembrava lasciarsi dietro un’eco. E il significato di quei volteggi e di quelle piroette divenne a poco a poco chiaro, e io mi sentivo la gola arida e stringevo i denti.
Perché la sua danza parlava né più né meno che della tragedia di essere vivi e di essere umani. Parlava, con estrema eloquenza, del dolore. Parlava, con profonda conoscenza, della disperazione. Parlava della crudele ironia dell’ambizione sconfinata legata alla capacità limitata, dell’eterna speranza investita in un’esistenza effimera, della smania di cercare di creare un futuro inesorabilmente predeterminato. Parlava di paura e di fame e, chiaramente, della fondamentale solitudine e dell’alienazione dell’animale umano. Descriveva l’universo visto attraverso gli occhi dell’uomo: un ambiente ostile, la materializzazione dell’entropia in cui tutti veniamo scagliati, soli, impediti dalla nostra natura dal toccare un’altra mente se non in modo indiretto, per procura. Parlava del cieco spirito di contraddizione che costringe l’uomo a lottare enormemente per una pace che, una volta ottenuta, diventa noia. E parlava della follia, del terribile paradosso in forza del quale l’uomo è simultaneamente capace di ragionare e sragionare, perpetuamente incapace di collaborare persino con se stesso.