Mi voltai verso di lui. — Buonanotte, Mr. Carrington. — Signore.
Carrington guardò il narghilé e Shara si affrettò a riempirlo di nuovo. Girai sui tacchi e mi avviai alla porta. La gamba mi faceva tanto male che per poco non caddi, ma strinsi i denti e ce la feci. Quando arrivai alla porta, dissi a me stesso: adesso l’aprirai e uscirai, e invece girai di nuovo sui tacchi. — Carrington!
Sbatté le palpebre, sorpreso di scoprire che esistevo ancora. — Sì?
— Si rende conto che Shara non l’ama affatto? Non le importa niente? — Avevo alzato la voce e senza dubbio stringevo i pugni.
— Oh — disse lui, e poi ripeté: — Oh. Dunque è così. Immaginavo che il successo, da solo, non bastasse a spiegare tanto disprezzo. — Posò il bocchino del narghilé e intrecciò le dita. — Mi permetta di dirle una cosa, Armstead. Nessuno mi ha mai amato, che io sappia. Questo appartamento non mi ama. — Per la prima volta la sua voce assunse un tono umano. — Ma è mio. Ora se ne vada.
Aprii la bocca per dirgli cosa poteva farsene del lavoro che mi era stato offerto, ma poi vidi la faccia di Shara e la sua espressione addolorata mi riempì di vergogna. Me ne andai subito e quando la porta si chiuse dietro di me vomitai su un tappeto che valeva poco meno di un’Hamilton Masterchrome Board. Mi pentii di aver messo la cravatta.
Il viaggio fino al Pike’s Peak Spaceport, almeno, fu esteticamente piacevole. Mi piace viaggiare in aereo, scivolare tra le nubi maestose, guardare la processione ondulata delle montagne e delle pianure con il mosaico dei campi e dei sobborghi che si rivela sotto di me.
Ma il tragitto fino allo Skyfac a bordo dello shuttle personale di Car-rington, That First Step, sembrava una replica di un vecchio telefilm dei Commandos Spaziali. Lo so che non possono mettere oblò nelle navi spaziali… ma accidenti, un televisore a circuito chiuso non offre risoluzione, valori cromatici e presenza più della TV di casa vostra. Le uniche differenze sono che le stelle non si «muovono» per dare l’illusione del viaggio, e non c’è un regista che effettui il montaggio della registrazione per offrire scene sensazionali.
Esteticamente parlando. La differenza esperienziale è che quando guardate i Commandos Spaziali non vi vendono rimedi contro le emorroidi, non vi legano a un divano, non vi aggrediscono con i tuoni, non vi fanno pesare più di mezza tonnellata per un tempo irragionevolmente lungo e poi non vi lanciano dall’orlo del mondo in condizioni d’imponderabilità. Io quasi mi aspettavo la nausea, ma quello che venne fu ancora più sconvolgente: l’improvvisa, inattesa, totale assenza di dolore alla gamba. In quanto a questo, Shara stava peggio di me: riuscì appena in tempo ad aprire il sacchetto per vomitarci dentro. Carrington si slegò e le fece un’iniezione antinausea con movimenti sicuri. Sembrò passare un’eternità prima che le facesse effetto; ma quando lo fece il cambiamento fu enorme… il colore e la forza ritornarono rapidamente, e Shara si era ripresa completamente quando il pilota annunciò che stavamo per attraccare e pregò tutti di allacciare le cinture di sicurezza e di star zitti. Quasi mi aspettavo che Carrington latrasse per ricordargli le buone maniere, ma evidentemente il magnate non era tanto stupido. Stette zitto e si legò.
La gamba non mi faceva male. Neppure un po’.
Il complesso Skyfac sembrava un mucchio disordinato di pneumatici per bicicletta e di palloni da spiaggia di varie grandezze. Quello verso cui si diresse il nostro pilota era piuttosto una gomma per trattori. Abbinammo la rotta, diventammo il suo assale e appaiammo la rotazione, e quel coso maledetto estromise una specie di tubo che ci prese direttamente nella camera di compensazione. La camera era «sopra» i nostri divani, ma vi entrammo e ne uscimmo con i piedi in avanti. Dopo qualche metro all’interno del tubo, la direzione in cui ci muovevamo divenne «giù», e le maniglie divennero una scaletta. Il peso aumentava ad ogni passo; ma anche quando arrivammo in un compartimento cubico piuttosto grande, rimase molto inferiore a quella normale della Terra. La mia gamba, comunque, ricominciò a darmi fastidio.
La camera cercava d’essere una sala da ricevimento di tipo classico (— Si accomodi, prego. Sua Maestà la vedrà tra poco. —) ma la bassa gravità e le tute pressurizzate appese lungo due pareti rovinavano l’effetto. Diversamente dalle armature dei Commandos Spaziali, una vera tuta pressurizzata sembra un sacco di forma umana e, vuota, ha un’aria particolarmente comica. Un giovane bruno in tweed si alzò da una scrivania attrezzatissima e sorrise. — È un piacere rivederla, Mr. Carrington. Spero che abbia fatto buon viaggio.
— Ottimo, Tom. Ricorda Shara, naturalmente. Questo è Charles Armstead. Tom McGillicuddy. — Tutti e due mostrammo i denti e dicemmo che eravamo lieti di far conoscenza. Ma capivo che, nonostante i convenevoli, McGillicuddy era agitato.
— Nils e Mr. Longmire la stanno aspettando nel suo ufficio, signore. C’è… c’è stato un altro avvistamento.
— Maledizione — cominciò Carrington, e s’interruppe. Lo fissai. Tutta la forza del mio sarcasmo migliore non era riuscita a farlo infuriare. — Sta bene. Si occupi dei miei ospiti mentre vado a sentire cos’ha da dirmi Longmire. — Si avviò verso la porta, muovendosi come un pallone da spiaggia al rallentatore, ma con le sue gambe. — Oh, sì… lo Step è carico di materiale ingombrante, Tom. Lo faccia portare alle rimesse, e faccia mettere l’equipaggiamento nel Magazzino Sei. — Se ne andò. Sembrava preoccupato. McGillicuddy mise in funzione la scrivania e diede gli ordini necessari.
— Cosa sta succedendo, Tom? — chiese Shara quando lui ebbe finito.
Lui mi guardò, prima di rispondere. — Scusi la domanda, Mr. Armstead, ma… lei è giornalista?
— Charlie. No, non lo sono. Sono un video-man, ma lavoro per Shara.
— Mmmm. Be’, verrà a saperlo comunque, prima o poi. Un paio di settimane fa, sul radar è apparso un oggetto all’interno dell’orbita di Nettuno. Come se fosse apparso dal nulla. C’erano… certe altre anomalie. È rimasto fermo per mezza giornata e poi è sparito di nuovo. Il Comando Spaziale ha imposto il segreto, ma sullo Skyfac lo sanno tutti.
— E l’oggetto è stato avvistato di nuovo? — chiese Shara.
— Appena al di là dell’orbita di Giove.
Il mio interesse era molto relativo. Senza dubbio il fenomeno aveva una spiegazione, e dato che non avevo a portata di mano Isaac Asimov, senza dubbio non ne avrei capito neppure una parola. In maggioranza avevamo rinunciato a credere agli esseri intelligenti non umani quando era ritornata a mani vuote l’ultima sonda intersistema. — Gli ometti verdi, immagino. Può mostrarci il Salone, Tom? Mi sembra di aver capito che è identico a quello dove lavoreremo.
McGillicuddy sembrava soddisfatto di poter cambiare discorso. — Sicuro.
Ci fece passare da una porta pressurizzata di fronte a quella da cui era uscito Carrington, e per lunghi corridoi con il pavimento che saliva incurvandosi davanti a noi e dietro di noi. Ognuno era attrezzato in modo diverso, ognuno era pieno di gente indaffarata, e ognuno mi ricordava un po’ l’atrio del New Age, o forse il vecchio film 2001. Opulenza Futuribile, così discreta che quasi urlava. Wall Street portata in orbita… e gli orologi, infatti, segnavano l’ora di Wall Street. Cercavo di convincermi che lo spazio freddo e vuoto era a pochissima distanza in ogni direzione, ma era impossibile. Pensai che era un bene che le navi spaziali non avessero oblò… quando si abituava alla bassa gravità, un uomo avrebbe potuto dimenticare e aprirne uno per buttar via un sigaro.
Studiai McGillicuddy, mentre camminavamo. Era immacolato sotto ogni punto di vista, dalla cravatta alle unghie smaltate, e non portava gioielli. I capelli erano corti e neri, la barba inibita, e gli occhi sorprendentemente calorosi in una faccia professionalmente asettica. Mi chiedevo per quanto aveva venduto l’anima. Mi auguravo che avesse spuntato il prezzo richiesto.