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«L’ho sentito dire.»

«Ma hai considerato le conseguenze?» domandò l’ib. «Significa che quattro maschi su cinque finiscono per non avere una compagna… e per essere esclusi dal pool genetico. Forse tu hai dovuto allontanare qualche pretendente quando eri alla conquista di Clarissa, o forse lei ha dovuto allontanare qualche donna che voleva conquistare te; ti prego di perdonarmi, non ho idea di come funzioni questa faccenda. Immagino però che per tutti i contendenti fosse un conforto sapere che per ogni maschio c’è una femmina e viceversa. È vero, gli accoppiamenti non sempre si concludono come si desidererebbe, ma ci sono buone probabilità che ogni uomo trovi una donna e viceversa… oppure un compagno del suo stesso sesso, se così preferisce.»

Keith fece spallucce. «Direi di sì.»

«Per il popolo di Jag, invece, le cose non stanno così. Le femmine detengono il potere assoluto nella loro società. Ognuna di loro viene “corteggiata”, credo sia la parola giusta, da cinque maschi, ed è la femmina, quando all’età di trent’anni raggiunge l’estro, a scegliere il proprio compagno tra i cinque che hanno passato i venticinque anni precedenti a competere per le sue attenzioni. Lo sai qual è il nome completo di Jag?»

Keith si sforzò di ricordare. «Jag Kandaro em-Pelsh, giusto?»

«Sì. Sai da dove deriva?»

L’uomo scosse la testa.

«Kandaro è un luogo» spiegò Rombo. «Per la precisione è la provincia cui fa capo la stirpe di Jag. E Pelsh è il nome della femmina al cui entourage lui appartiene. Ora come ora, lei ha un certo potere a Rehbollo. Non soltanto è una famosa matematica, ma è anche nipote della regina Trath. Ho incontrato personalmente Pelsh nel corso di una conferenza. Ha fascino, intelligenza, ed è circa due volte più grossa di Jag, come tutte le femmine waldahudin.»

Keith contemplò un’immagine mentale, ma non disse nulla.

«Capisci?» lo esortò Rombo. «Jag deve lasciare il segno. Deve distinguersi dagli altri quattro maschi del suo entourage se vuole essere scelto. Tutto ciò che fa un waldahud maschio prima dell’accoppiamento è diretto a mettere in evidenza se stesso. Jag è venuto sulla Starplex per cercare una gloria sufficiente a conquistare l’affetto di Pelsh… e questa gloria ha intenzione di trovarla a qualunque costo.»

Quella notte, a letto, Keith era sdraiato sulla schiena.

Da una vita aveva difficoltà a dormire… nonostante seguisse tutti i consigli che la gente gli dava da anni. Non prendeva bevande contenenti caffeina dopo le sei di sera. Aveva chiesto a Phantom di trasmettere rumori di statica dagli altoparlanti del letto, per soffocare l’occasionale russare di Rissa. E benché ci fosse un orologio digitale incastonato nel comodino, provvedeva a coprirne il display con un quadretto di plasticarta che infilava in una scanalatura del legno. Avere sempre sottocchio l’orologio e preoccuparsi perché era tardi, perché rimaneva sempre meno tempo per dormire prima che venisse il mattino, era controproducente. È vero che poteva sempre alzarsi per vedere l’ora, o allungarsi e piegare all’ingiù la plasticarta anche senza uscire dalle coperte, se ne avesse avuto la curiosità, ma quell’accorgimento funzionava quasi sempre.

Ma non quella notte.

Quella notte continuava a muoversi e rigirarsi.

Quella notte rivisse l’incontro in corridoio con Jag.

Jag, un nome perfetto per un bastardo.

Keith si girò sul fianco sinistro.

In quel periodo Jag teneva una serie di seminari di aggiornamento professionale per i membri dell’equipaggio che volevano imparare un po’ di fisica. Rissa teneva seminari simili per chi voleva imparare un po’ di biologia.

Keith era sempre stato affascinato dalla fisica. Anzi, quando per il primo anno di università aveva scelto un indirizzo scientifico, aveva seriamente pensato di diventare un fisico lui stesso. Tutti quei fantastici concetti, come il principio antropico, secondo il quale l’universo era “obbligato” a generare vita intelligente. E il gatto di Schroedinger, un esperimento mentale per dimostrare che l’atto di osservare dava forma alla realtà. E tutte quelle splendide contorsioni e giravolte delle teorie di Einstein sulla relatività ristretta e generale.

Keith amava Einstein… lo amava per la sua mescolanza di umanità e intelletto, per la sua capigliatura scomposta, per il suo tentativo da cavaliere errante di rimettere in bottiglia il genio nucleare che lui stesso aveva evocato. Anche quando decise di scegliere sociologia come filone principale dei suoi studi, Keith tenne appeso sopra il suo letto un poster del grande vecchio della fisica. Gli sarebbe piaciuto partecipare a qualche seminario di fisica… ma non con Jag. La vita era troppo breve per rovinarsela così.

Pensò a quello che aveva detto Rombo sulla vita familiare dei waldahudin e gli vennero in mente Rosalind, sua sorella maggiore, e Brian, suo fratello minore.

In un certo senso, Roz e Brian avevano contribuito a plasmarlo non meno del suo corredo genetico. Grazie alla loro esistenza lui era stato un figlio di mezzo. E i figli di mezzo sono costruttori di ponti, tentano sempre di fare collegamenti, di avvicinare i gruppi. Era a Keith che toccava sempre organizzare le feste di famiglia, come quelle per l’anniversario di matrimonio o per i compleanni dei genitori, o il raduno natalizio del clan. Ed era stato lui a organizzare l’incontro del ventennale con i compagni di liceo, era lui che dava ricevimenti a casa per i colleghi di altre città in visita all’università, o che aiutava i gruppi multiculturali ed ecumenici. E, per finire, aveva passato la maggior parte della sua vita professionale a operare perché il Commonwealth diventasse un’entità politicamente solida, in grado di camminare con le sue gambe: quello era stato l’ultimo ponte.

Roz e Brian non si preoccupavano se qualcuno li apprezzava o no, se c’era o no la pace tra le varie parti, se c’era comunicazione, se la gente andava d’accordo.

Probabilmente Roz e Brian dormivano benissimo.

Keith si girò a pancia in su, con un braccio dietro la testa.

Forse non era possibile. Forse umani e waldahudin non potevano andare d’accordo. Forse erano troppo diversi. O troppo simili. Oppure…

“Cristo” pensò Keith “smettila. Falla finita.”

Allungò un braccio, piegò all’ingiù la plasticarta e guardò le lucenti cifre rosse.

“Accidenti.”

Ora che avevano raccolto i campioni di quello strano materiale toccava a Jag e a Rissa, in qualità di responsabili delle due divisioni scientifiche, stabilire un progetto di ricerca. Il passo successivo sarebbe dipeso ovviamente dalla natura dei campioni. Se non avessero avuto nulla di eccezionale, allora la Starplex avrebbe continuato la ricerca delle creature che avevano attivato la scorciatoia… una missione che dava la priorità alle scienze biologiche. Se invece lo strano materiale si fosse dimostrato straordinario, Jag avrebbe sostenuto che era dovere della Starplex rimanere lì per studiarlo e l’équipe di Rissa avrebbe preso uno dei due vascelli diplomatici della Starplex, il Nelson Mandela o il Kof Dagrelo em-Stalsh, per continuare la ricerca.

Il mattino seguente Jag accese l’intercom e contattò Rissa nel suo laboratorio, comunicandole che desiderava vederla. Poteva significare una cosa sola: Jag voleva sferrare un attacco preventivo sulle priorità della missione. Rissa si preparò alla battaglia con un respiro profondo, e si diresse all’ascensore.

L’ufficio di Jag aveva la stessa disposizione di quello di Rissa, ma era stato decorato (se si può usare questa parola) secondo i dettami dell’arte-di-fango waldahud. Di fronte alla scrivania c’erano tre diversi modelli di multisedia. I waldahudin, infatti, disprezzavano ciò che era prodotto in serie: avendone di tre tipi, Jag poteva almeno dare l’impressione che ciascuna fosse un pezzo unico. Rissa sedette sulla multisedia di mezzo e fissò il waldahud in attesa oltre l’ampia, dolorosamente vuota, scrivania. «Veniamo al dunque» disse. «Ormai devi avere analizzato i campioni prelevati ieri. Di che cosa sono fatte le sfere?»