«Forse perché nessuno l’ha mai chiesto» suggerì Jag in tono dimesso.
«Perché allora non hai suggerito di appiattire lo spaziotempo per usare l’iperpropulsione, quando è apparsa la stella verde?» chiese Keith.
«Non lo si può fare da soli: ci deve essere una fonte di energia esterna. Credimi, abbiamo tentato di ideare tecniche che rendessero possibile a un’astronave di liberarsi da sé, ma nessuna ha funzionato. Per usare una metafora umana, sarebbe come cercare di sollevare se stessi tirandosi su per le stringhe delle scarpe: non è possibile.»
«Ma se noi lo facessimo qui e adesso, cioè se facessimo evaporare la scorciatoia, non potremmo più tornare a casa» osservò Keith.
«È vero» ammise Jag. «Però potremmo programmare un numero sufficiente di boe antigravità perché convergano sulla scorciatoia dopo il nostro passaggio.»
«Ma a quanto pare le stelle stanno sbucando da un sacco di scorciatoie» ricordò Rissa. «E se faremo evaporare quelle di Tau Ceti, Rehbollo e Flatlandia distruggeremo il Commonwealth, separando ogni mondo dagli altri.»
«Sì, lo faremmo per proteggere i singoli mondi del Commonwealth» disse Thor.
«Insomma» intervenne Keith «qui nessuno desidera la fine del Commonwealth.»
«C’è un’altra possibilità» disse Thor.
«Ah sì?»
«Trasferire le razze del Commonwealth in sistemi di stelle adiacenti, lontane da qualunque scorciatoia. Potremmo localizzare tre o quattro sistemi abbastanza vicini, con il giusto tipo di pianeti, terraformarli per renderli abitabili e spostarci tutti lì. Questo ci consentirebbe di avere una comunità interstellare che mantiene i contatti con la normale iperpropulsione.»
Keith aveva gli occhi sbarrati. «Ma ti rendi conto? Si parla di spostare trenta “miliardi” di persone!»
«Prendere o lasciare» disse Thor.
«Gli ib non lasceranno Flatlandia» affermò Rombo, senza i soliti giri di parole.
«È una follia» disse Keith. «Non possiamo cancellare le scorciatoie.»
«Certo che possiamo, se i nostri mondi sono minacciati» disse Thor. «Anzi, dobbiamo.»
«Non ci sono prove che le stelle in arrivo siano una minaccia» disse Keith. «Non riesco a credere che creature tanto progredite da poter spostare le stelle siano aggressive.»
«Forse non lo sono» suggerì Thor. «Non più degli operai che distruggono i formicai. Noi siamo probabilmente capitati per sbaglio sulla loro strada.»
Finché non avesse avuto altre informazioni, non c’era nulla che Keith potesse fare con le stelle in arrivo. Così, alle dodici in punto, lui e Rissa smontarono dal servizio e andarono in cerca di un posto dove mangiare.
C’erano otto ristoranti a bordo della Starplex. La scelta del termine non era casuale. Gli umani, infatti, preferivano riferirsi alle varie strutture della Starplex in termini navali: sale-mensa, infermerie e cabine, al posto di ristoranti, ospedali e appartamenti. Tra le quattro specie del Commonwealth, però, soltanto gli umani e i waldahudin avevano tradizioni militari, mentre le altre due razze trovavano quel fatto già abbastanza inquietante senza bisogno che fosse sottolineato anche dalla terminologia di bordo.
Ogni ristorante era unico, sia come ambiente sia come cucina. I progettisti della Starplex si erano dati un gran daffare per far sì che la vita di bordo non fosse monotona. Keith e Rissa decisero di pranzare al Kog Tahn, il ristorante waldahud sul ponte 26. Oltre le false vetrate del locale si vedevano ologrammi della superficie di Rehbollo: immense pianure alluvionali di fango rosso-porpora, segnate da fiumi e ruscelli. Dappertutto rotolavano ciuffi di stargin,l’equivalente rehbolliano degli alberi: sembravano covoni di erba mobile azzurra, alti tre o quattro metri. La superficie fangosa non offriva alcun solido appiglio, ma era ricca di minerali disciolti e di sostanze organiche in decomposizione. Ogni starg aveva migliaia di germogli aggrovigliati che servivano come radici ma anche, quando si districavano, come organi per la fotosintesi, a seconda che finissero a contatto col terreno o con l’aria. Le gigantesche piante vagavano nelle pianure, rotolando senza fine o galleggiando sui fiumi, finché non trovavano limo fertile. A quel punto si ancoravano, sprofondando fino a farsi avvolgere dalla melma per un terzo della loro altezza.
Il cielo olografico era di un verde grigiastro, e la stella che lo dominava era grande e rossa. Secondo Keith quel contrappunto di colori dava un senso di desolazione, ma non poteva negare che la cucina fosse eccellente. I waldahudin erano principalmente vegetariani e le loro piante preferite erano succulente e gradevoli al palato. A Keith capitava almeno tre o quattro volte al mese, di avere voglia di germogli di starg.
Com’è ovvio, gli otto ristoranti erano aperti a chiunque, il che significava che disponevano di una serie di piatti in grado di soddisfare le richieste metaboliche di ciascuna razza. Keith ordinò un panino al formaggio grigliato e un’insalata di starg accompagnata da un paio di cetriolini sottaceto. I waldahudin, le cui femmine (come i mammiferi terrestri) secernevano un liquido nutritivo per i propri piccoli, trovavano disgustoso che gli umani bevessero il latte di altri animali, ma facevano finta di non sapere da dove veniva il formaggio.
Rissa era seduta di fronte a Keith. In realtà il tavolino aveva la consueta forma waldahud, cioè quella di un fagiolo, ed era fatto di un lucido materiale vegetale che non era legno, ma che aveva ugualmente una serie di eleganti venature chiare e scure. Rissa era seduta di fronte alla parte concava del tavolino. Secondo le consuetudini waldahud, quello era il posto d’onore riservato alle femmine: sul loro mondo, la dama sedeva sempre in quel posto, mentre il suo entourage di maschi si schierava sulla parte convessa del fagiolo.
Rissa aveva gusti più arditi di Keith. Aveva ordinato dei gaz torad,o mitili sanguigni, molluschi bivalvi che vivevano sul fondo melmoso dei molti laghi di Rehbollo. Secondo Keith, quel loro colore rosso porpora era disgustoso, e anche molti waldahudin erano d’accordo, dal momento che il loro sangue aveva lo stesso punto di rosso. Rissa però era diventata abilissima nel trucco di portare la conchiglia alla bocca, aprirla e risucchiare il mollusco senza permettere che la morbida polpa incontrasse il suo sguardo o quello dei suoi commensali.
Keith e Rissa mangiarono in silenzio e lui si chiese se fosse un fatto positivo o negativo. Da decenni avevano superato l’esigenza delle chiacchiere oziose. Certo, se c’era qualcosa che tormentava l’uno o l’altra ne avrebbero parlato a lungo, ma per il resto apprezzavano la reciproca compagnia senza bisogno di parole. Così almeno la pensava Keith, con la speranza che Rissa fosse d’accordo.
Keith usò le sue katook (posate waldahud, simili a pinzette dalle punte a becco) per portarsi alla bocca un ciuffo di starg,proprio nel momento in cui un pannello di comunicazione spuntò dal tavolino mostrando la faccia di Hed, lo specialista waldahud in comunicazioni aliene.
«Rissa» abbaiò con una voce che, chissà come, aveva un accento di Brooklyn più marcato di quello di Jag (l’angolazione del pannello non gli permetteva di vedere Keith). «Ho analizzato il rumore che abbiamo individuato vicino alla banda radio dei 21 centimetri. Se ti dico a voce quello che ho scoperto non ci crederai. Vieni subito nel mio laboratorio.»
Keith appoggiò sul tavolo la posata e guardò sua moglie. «Vengo anch’io» disse, e si alzò. Mentre attraversavano il locale si rese conto che quelle erano le uniche parole che le avesse rivolto durante il pasto.
Keith e Rissa salirono sull’ascensore. Come sempre, un monitor sulla parete della cabina mostrava il numero del ponte che stavano attraversando, 26, collocato su una croce dalle lunghe braccia. A mano a mano che loro salivano e il numero del ponte diminuiva, le braccia della croce diventavano sempre più corte. Quando raggiunsero il ponte 1 le braccia si erano quasi completamente ritratte. I due umani scesero ed entrarono nella sala di ascolto radioastronomico. Qui un piccolo waldahud con la pelle molto più rossa di quella di Jag era chino su una scrivania. «Rissa, la tua presenza è benvenuta.» La consueta formula di deferenza per le femmine. Poi con un cenno del capo: «Lansing.» La ruvida indifferenza riservata ai maschi, anche a quelli in posizione dominante.