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Keith annuì. «Quanto dovremo aspettare prima di poter attraversare la scorciatoia con sicurezza?»

«Fino a domani pomeriggio, o anche meno. La distanza tra il portale e la stella verde è in rapido aumento, e se siamo disposti a rischiare una decina di watson nel tentativo dovremmo anche riuscire a far conoscere subito le nostre intenzioni ai cantieri di Flatlandia, in modo che gli ib comincino a prepararsi al nostro arrivo.»

«Ottimo lavoro, Lianne.» La fissò, e lei gli rivolse un altro sorriso, caldo, luminoso, “intelligente”. Keith si sentì irritato con se stesso perché a volte dimenticava come mai lei si trovasse a bordo della Starplex. Lianne Karendaughter era il miglior ingegnere astronavale disponibile.

Thor pilotò la nave attraverso la scorciatoia e sbucò alla periferia del sistema di Flatlandia. In quella zona le Nubi di Magellano dominavano il cielo. Il sole di Flatlandia, Calor Bianco, era una stella di classe F, e la stessa Flatlandia era una palla priva di imperfezioni, avvolta da nuvole bianche.

Gli ib non erano in grado di lavorare in gravità zero. Keith andò a un oblò e li vide sciamare a migliaia intorno alla Starplex nelle loro unità mobili personali, fatte a forma di disco da hockey e del tutto trasparenti, a parte le piastre per la gravità artificiale. Essendoci di mezzo gli ib, il lavoro fu svolto senza perdite di tempo: i nuovi moduli abitativi furono incastrati al loro posto, fornendo alla Starplex ponti nuovi di zecca dal numero 41 al 70. Keith riuscì a malapena a scorgere la scialuppa a forma di bolla dalla quale Lianne orchestrava il lavoro. Durante l’intera operazione si presentò un solo problema: il tubo che stava prosciugando il ponte oceano si ruppe. L’acqua salata si riversò nello spazio congelandosi in minuscole schegge che scintillavano come diamanti nella luce intensa di Calor Bianco.

Quando il lavoro fu completato, la Starplex (ormai un incrocio tra la Starplex 1 e la 2) tornò ad attraversare la scorciatoia.

Keith era soddisfatto delle riparazioni e ancor più soddisfatto che non ci fosse più affollamento nella parte superiore della nave. Le discussioni tra i membri delle diverse razze cominciavano a diventare un problema: adesso che c’era di nuovo spazio in abbondanza, forse a bordo sarebbe tornata la pace.

Nel frattempo, cinque nuovi ricercatori erano saliti a bordo: un ib e due waldahud specializzati in materia oscura, un delfino e un umano esperti in evoluzione stellare. Subito dopo l’arrivo dei rapporti della Starplex, tutti e cinque avevano lasciato immediatamente le loro occupazioni e si erano precipitati alla rete di scorciatoie per essere presenti a Flatlandia all’arrivo della nave.

Lianne aveva mantenuto le sue promesse: le riparazioni erano state completate in meno di diciotto ore. Dopodiché la nave, pilotata da Thor, riattraversò la scorciatoia e riemerse nelle vicinanze del campo di materia oscura e dell’enigmatica stella verde.

11

I progettisti della Starplex avevano previsto che l’ufficio del direttore dovesse trovarsi accanto al ponte di comando, ma Keith aveva insistito per spostarlo. Il direttore, secondo lui, doveva essere visto in tutta la nave, non soltanto in un settore isolato. Alla fine aveva scelto una stanza quadrata di circa quattro metri per lato, situata sul ponte 14, a metà di una delle facce triangolari del modulo abitativo 2. Da una parete a vetri si scorgeva il modulo 3, perpendicolare a quello in cui si trovava lui, oltre a una fetta larga 90 gradi del cerchio color rame che costituiva il disco centrale della Starplex, sedici piani più in basso. Su quella parte del soffitto era riportato il nome della Starplex negli squadrati caratteri della lingua waldahudar.

Keith sedeva dietro una grande scrivania rettangolare, fatta di autentico mogano. Sopra c’erano i ritratti olografici di sua moglie Rissa, in un esotico abbigliamento da antica danzatrice spagnola, e del figlio Saul che sfoggiava una maglietta di Harvard e quella strana barbetta caprina allora di moda tra i giovani. Accanto agli ologrammi c’era un modello della Starplex in scala 1:600. Dietro alla scrivania, su una cassettiera, trovavano posto i globi della Terra, di Rehbollo e di Flatlandia, accanto a una classica tavola da gioco go, con i pezzi fatti di lucida madreperla bianca e di ardesia. Sopra il comò campeggiava la riproduzione incorniciata di un quadro di Emily Carr, che rappresentava un totem degli indiani Haida nella foresta di una delle Isole della regina Carlotta. Ai lati della cassettiera c’erano due grandi piante in vaso. L’arredamento della stanza era completato da un divano, tre sedie multiforma e un tavolino.

Keith si era tolto le scarpe e aveva appoggiato i piedi alla scrivania. Non imitava mai Thor quando era sul ponte, ma quando era solo si metteva spesso in quella posizione. Appoggiato allo schienale della poltroncina nera stava leggendo un rapporto sui segnali individuati da Hek quando un cicalino suonò.

“Jag Kandaro em-Pelsh è alla porta” annunciò Phantom.

Keith sospirò, tolse i piedi dal tavolo e fece con una mano il gesto “fallo entrare”. La porta rientrò nella parete e Jag si fece avanti. Dopo un attimo le narici del waldahud cominciarono a fremere, e Keith temette che Jag avesse sentito l’odore dei suoi piedi. «Che cosa posso fare per te, Jag?»

Il waldahud toccò lo schienale di una multisedia, che subito si configurò secondo la forma di Jag, poi sedette e cominciò ad abbaiare. La voce tradotta disse: «Ben pochi dei vostri personaggi letterari mi piacciono. Uno di questi è Sherlock Holmes.»

Keith sollevò un sopracciglio. Sfacciato, arrogante… sì, non aveva difficoltà a credere che piacesse a Jag.

«In particolare» continuò Jag «apprezzo la sua abilità nel distillare un processo mentale in una massima. E una delle mie preferite è: “La verità è il residuo, per quanto carente di probabilità, che rimane indietro quando ciò che non può essere è omesso dalla considerazione”.»

Se non altro, quella citazione strappò a Keith un sorriso. Ciò che Conan Doyle aveva scritto era: “Eliminate l’impossibile e ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità”, ma considerando che quelle parole erano state prima tradotte in waldahudar e poi ritradotte in inglese, la versione di Jag non era malvagia.

«Sì?» lo incoraggiò Keith.

«Ebbene, la mia analisi originale, ovvero che la stella di quarta generazione qui apparsa fosse un’anomalia, deve ora essere corretta, perché è stata individuata una seconda stella dello stesso genere a Rehbollo 376A. Applicando il detto di Holmes, credo adesso di avere compreso da dove vengono queste due stelle verdi e presumibilmente tutte le altre stelle vagabonde.» Jag tacque, in attesa che Keith lo sollecitasse a proseguire.

«Allora?» disse Keith, irritato.

«Dal futuro.»

Keith fece una risata, che però risultò più simile a una serie di colpi di tosse. Probabilmente, agli orecchi waldahud non aveva un suono derisorio. «Dal futuro?»

«È la spiegazione migliore. Le stelle verdi non possono essersi evolute in un universo giovane come il nostro. Se ce ne fosse una sola potrebbe trattarsi di un caso straordinario, ma due sono troppo improbabili.»

Keith scosse la testa. «Non potrebbero venire da… non so… qualche regione insolita dello spazio? Forse hanno fatto coppia con un buco nero e gli stress gravitazionali hanno reso più veloci le reazioni di fusione.»

«Ho pensato anch’io a ipotesi simili» ribatté Jag. «Cioè ho pensato a potenziali scenari alternativi, tra i quali non è certo presente quello da te esposto. Nessuno però si adatta ai fatti. Ho appena eseguito la datazione radiometrica, basata sulle proporzioni degli isotopi, del materiale che io e Lunga Bottiglia abbiamo raccolto dall’atmosfera della nostra stella verde. Gli atomi dei metalli pesanti hanno 22 miliardi di anni. La stella non è così antica, è chiaro, ma lo sono molti degli atomi che la compongono.»