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Keith allargò le braccia in una sorta di richiamo al buon senso, e con lo sguardo cercò qualcun altro sul ponte che fosse perplesso quanto lui dagli sviluppi della faccenda.

Fu allora che lo colpì un’idea ancora più grandiosa, che lo fece accasciare per qualche istante sullo schienale della sedia. Subito dopo toccò il pannello delle comunicazioni e selezionò un canale. «Lansing per Hek» disse.

Dopo un attimo comparve nel panorama stellare un secondo riquadro contenente l’ologramma della faccia di Hek. «Eccomi.»

«Hai avuto fortuna nel rintracciare la fonte delle trasmissioni radio?»

Keith ebbe l’impressione di vedere le spalle più basse del waldahud muoversi, anche se erano fuori dall’inquadratura della telecamera. «Non ancora.»

«Hai detto di avere rintracciato segnali apparentemente intelligenti su più di duecento diverse frequenze.»

«Esatto.»

«Quante frequenze, esattamente?»

La faccia di Hek mostrò il profilo del muso sporgente, mentre consultava un monitor. «Esattamente 217» rispose. «Alcune però sono molto più attive di altre.»

Keith udì Jag, alla sua sinistra, ripetere lo stesso guaito di stupore di poco prima.

«Ci sono esattamente 217 oggetti di dimensioni gioviane, là fuori» disse lentamente Keith. Fece una pausa, quasi per cancellare dal suo stesso cervello le conclusioni più ovvie. «Naturalmente sappiamo che giganti gassosi come Giove sono spesso fonte di emissioni radio.»

«Queste però sono sfere di materia oscura» obiettò Lianne. «E sono elettricamente neutre.»

«Non sono composte esclusivamente di materia oscura» obiettò Jag. «Sono permeate di frammenti di materia normale. La materia oscura può interagire con i protoni della materia normale attraverso la forza nucleare forte, generando di conseguenza segnali elettromagnetici.»

Hek sollevò le spalle superiori. «Potrebbe essere una spiegazione» disse. «Però ogni sfera trasmette sulla sua frequenza privata, come se…» La voce dall’accento di Brooklyn si spense.

Keith guardò Rissa e capì che anche lei era giunta alle stesse conclusioni. Aggrottò la fronte: «Come se fossero voci separate» disse, completando la frase.

«Ma adesso non ci sono più 217 oggetti, là fuori» disse Thor. «Ce ne sono 218.»

Keith annuì. «Hek, rifai l’inventario dei segnali. Controlla se ci sono segni di attività a una frequenza appena superiore o appena inferiore ai confini dell’intervallo che hai identificato.»

Hek inclinò la testa come per azionare qualche comando proprio lì, sul ponte uno. «Un attimo» disse. «Ci vuole solo un attimo.» Subito dopo esclamò: «Sì, per gli dèi del fango e delle lune! Sì, certo che c’è!»

Keith guardò Rissa sogghignando. «Mi chiedo quali siano state le prime parole del neonato.»

Epsilon Draconis

Keith non aveva notato Vetro rientrare nel molo d’attracco ma quando alzò gli occhi lo vide avvicinarsi, con le gambe trasparenti che avanzavano sul prato d’erba e di quadrifogli. Il suo passo era fluido, bello a vedersi e dava l’impressione di un movimento al rallentatore anche se la velocità della camminata era normale. Quella traccia di acquamarina, l’unica sfumatura di colore nel suo corpo chiaro, aveva un effetto ipnotico.

Keith considerò l’idea di alzarsi in piedi, poi si limitò a fissare l’uomo trasparente osservando i bagliori che il sole traeva dal suo corpo e dalla testa a uovo.

«Bentornato.»

Vetro fece un cenno con il capo. «Lo so, lo so, hai paura. Lo nascondi bene, ma continui a chiederti per quanto tempo ti terrò qui. Non troppo, te lo prometto. Ma c’è qualcos’altro che vorrei esaminare con te prima della tua partenza.»

Keith inarcò le sopracciglia e Vetro sedette appoggiando la schiena a un albero vicino. Qualunque fosse la sostanza del suo corpo, non era vetro: nonostante la forma a tubo, infatti, il suo torace trasparente non ingrandiva affatto la corteccia. Si notava appena una lieve distorsione nell’immagine.

«Sei arrabbiato» disse Vetro senza giri di parole.

Keith scosse la testa. «No. Finora sono stato trattato bene.»

Uno scampanellio: la sua risata. «No, no. Non dico che sei arrabbiato con me. Sei arrabbiato punto e basta. C’è qualcosa in te, nel profondo, che ti ha indurito il cuore.»

Keith distolse lo sguardo.

«Sono nel giusto, vero?» domandò Vetro. «È accaduto qualcosa che ti ha profondamente sconvolto.»

Silenzio.

«Ti prego» lo esortò Vetro. «Parlamene.»

«È successo molto tempo fa» cominciò Keith. «Lo so… dovrei averlo superato, e invece…»

«Invece ti tormenta ancora, vero? Di che cosa si tratta? Cos e stato a cambiarti così tanto?»

Keith sospirò e si guardò intorno. Tutto, lì, era bellissimo e pacifico. Non ricordava quanto tempo era passato dall’ultima volta che si era seduto sull’erba, tra gli alberi, giusto per godersi il panorama… per rilassarsi.

«Ha a che fare con la morte di Saul Ben-Abraham» rispose.

«Morte» ripeté Vetro, quasi che Keith avesse usato un’altra parola a lui sconosciuta, come donchisciottesco. Scosse la testa trasparente. «Che età aveva quando è morto?»

«È successo diciotto anni fa. Mi sembra che avesse 27 anni.»

«Un battito di ciglia» commentò Vetro.

Per un attimo tra loro cadde il silenzio. Keith si era molto arrabbiato quando Vetro aveva liquidato con una frase simile i loro vent’anni di matrimonio. Questa volta, però, aveva ragione.

«Come è morto?» domandò Vetro.

«È stato un incidente. O, almeno, così ha deciso il GovUm. Io però ho sempre pensato che abbiano scopato tutto sotto il tappeto. Hanno insabbiato l’inchiesta. A quel tempo io e Saul vivevamo su Tau Ceti IV. Lui si era laureato in astronomia, io in sociologia, e lo studio della colonia faceva parte della nostra tesi per il dottorato. Eravamo amici fin dai tempi del liceo, e alla UBC eravamo stati compagni di stanza. Avevamo un sacco di cose in comune: a tutti e due piaceva giocare a pallamano e a go, recitavamo entrambi nella compagnia teatrale studentesca, avevamo gli stessi gusti musicali. In ogni caso, Saul scoprì la scorciatoia di Tau Ceti e una piccola sonda fu inviata ad attraversarla. A quei tempi Nuova Pechino era più che altro una colonia agricola, ben lontana dall’animazione di oggi. Non si chiamava nemmeno Nuova Pechino, era semplicemente la colonia Silvanus, dal nome del quarto pianeta del sistema di Tau Ceti. Non avevano molti sociologi da quelle parti, così finirono per incaricare me di valutare quali effetti avrebbe avuto sulla cultura umana la scoperta delle scorciatoie. Fu allora che comparve l’astronave waldahuar. Si doveva mettere insieme in fretta e furia una squadra di primo contatto e anche con l’iperpropulsione ci sarebbero voluti sei mesi per fare arrivare qualcuno dalla Terra. Così io e Saul fummo reclutati per la squadra che avrebbe preso contatto con la nave, dopodiché…» Keith lasciò la frase in sospeso, chiuse gli occhi e scosse impercettibilmente la testa.

«Sì?» lo incoraggiò Vetro.

«Dissero che era stato un incidente. Dissero che avevano frainteso. Quando incontrammo i waldahudin faccia a faccia per la prima volta, Saul aveva con sé un’unità olografica portatile. Non la puntò contro i maiali, è chiaro. Nessuno sarebbe stato così stupido. L’aveva semplicemente con sé, appesa al fianco, quando con il pollice premette il pulsante di accensione.» Keith fece un sospiro lungo e sonoro. «Dissero che era identica a un’arma waldahuar tradizionale, che aveva la stessa forma. Erano convinti che Saul portasse un’arma e che intendesse usarla contro di loro. Invece erano i maiali a essere armati e uno di loro sparò a Saul. Proprio in faccia. La sua testa esplose vicino a me, e gli spruzzi…» Keith distolse lo sguardo e rimase a lungo in silenzio. «Lo hanno ucciso. Era il mio migliore amico e loro lo hanno ucciso.» Fissò il prato, raccolse alcuni quadrifogli e li fissò a lungo, poi li buttò via.