«Perdonami, buon Jag» intervenne Rombo. «Ma esiste un modo ovvio per mandare avanti qualcosa.»
«E qual è?» domandò Keith.
«Una capsula temporale» rispose l’ib. «Lo sanno tutti: basta fabbricare qualcosa che duri abbastanza a lungo. Alla fine, senza fare niente di particolare, arriverà nel futuro grazie al naturale trascorrere del tempo.»
Jag e Keith si guardarono l’un l’altro. «Ma… Jag dice che le stelle vengono da “miliardi” di anni nel futuro» obiettò Keith.
«Effettivamente» disse il waldahud «se dovessi fare un’ipotesi, direi che arrivano da circa dieci miliardi di anni da noi.»
Keith annuì e si rivolse ancora a Rombo. «È il doppio dell’età attuale dei pianeti del Commonwealth.»
«Hai ragione» disse l’ib. «Ma, perdonami, malgrado ciò che voi umani pensate, né la Terra né gli altri pianeti sono stati creati per un atto volontario. La nostra capsula temporale invece lo sarebbe.»
«Una capsula temporale in grado di durare dieci miliardi di anni…» disse Jag, chiaramente affascinato dall’idea. «Forse sì. Dovrebbe essere fatta con un materiale molto resistente, come… come il diamante, ma senza piani di clivaggio. Però anche se costruissimo una simile capsula, non avremmo nessuna garanzia che sarebbe rinvenuta. E in ogni caso questo settore della galassia ruoterà intorno al centro una quarantina di volte prima di allora. Come faremmo a impedirgli di andare alla deriva, in un tempo così lungo?»
Sulla rete di Rombo danzarono alcune luci. «Be’, possiamo ipotizzare che questa particolare scorciatoia continuerà a esistere per i prossimi dieci miliardi di anni: è un’ipotesi ragionevole, perché esiste adesso ed esisterà nel momento futuro in cui una stella sarà spinta al suo interno. Costruiamo allora una capsula temporale autoriparante… il laboratorio nanotecnologico dovrebbe essere all’altezza della richiesta… e facciamola restare in posizione accanto alla scorciatoia.»
«E poi ci affidiamo alla speranza che qualcuno la noti, quando arriverà da queste parti per usare la scorciatoia?» domandò Keith.
«Potrebbe essere qualcosa di più, buon Keith» disse Rombo. «È possibile che qualcuno arriverà da queste parti per “costruire” la scorciatoia. Le scorciatoie potrebbero essere state costruite nel futuro, con punti di sbocco nel passato. Se il loro vero scopo fosse quello di spedire stelle indietro nel tempo, sarebbe uno scenario molto probabile.»
Keith si rivolse a Jag. «Obiezioni?»
Il waldahud scrollò le quattro spalle. «Nessuna.»
Ancora a Rombo: «Credi che funzionerà?»
Un fulmineo lampeggiare di luci sulla rete di sensori dell’ib. «Perché no?»
Keith rifletté. «Credo che valga la pena di provare. Dieci miliardi di anni, però… tutte le razze del Commonwealth potrebbero essere estinte per quell’epoca. Anzi, saranno estinte senz’altro.»
Sulla rete di Rombo le luci si mossero all’insù: un cenno di assenso. «Di conseguenza dovremo inventare per il messaggio un linguaggio simbolico o matematico. Chiedi al nostro buon amico Hek di escogitare qualcosa. Come radioastronomo coinvolto nella ricerca di intelligenze aliene lui è un esperto di comunicazione simbolica. Per usare un’espressione comune a entrambi i nostri popoli, questo progetto dovrebbe andargli a fagiolo.»
Il ponte ribolliva di attività e c’era ancora un sacco di lavoro da fare. Jag e Hek, però, erano visibilmente assonnati. Benché non facessero i teatrali sbadigli per cui erano famosi gli umani, continuavano a dilatare ritmicamente le narici: una reazione fisiologica che aveva le stesse cause degli sbadigli.
Per un attimo Keith pensò che lui avrebbe potuto resistere anche per tutta la notte: l’aveva fatto parecchie volte, ai tempi dell’università. Ma l’università risaliva a un quarto di secolo prima, e doveva ammettere di sentirsi esausto anche lui.
«Pausa per la notte» disse, alzandosi dalla sedia. Mentre si allontanava dal computer, tutte le spie e gli indicatori si spensero.
Rissa annuì e si alzò a sua volta. Insieme a lui si diresse verso una parete del ponte, celata dall’ologramma. Una porta si aprì rivelando il corridoio retrostante e i due la imboccarono andando verso gli ascensori. C’era una cabina che li attendeva: Phantom aveva provveduto a inviarla non appena erano entrati nel corridoio. Keith entrò, seguito da Rissa. «Ponte undici» ordinò, e Phantom emise un cinguettio d’assenso. Si girarono appena in tempo per vedere Lianne Karendaughter che arrivava di corsa dal corridoio. Ovviamente la vide anche Phantom, che tenne aperta la porta dell’ascensore fino al suo arrivo. Mentre entrava, Lianne sorrise a Keith, poi disse ad alta voce il numero del suo piano. Rissa tenne lo sguardo fisso sul monitor che mostrava la pianta del ponte che l’ascensore stava attraversando.
Keith era sposato con Rissa da troppo tempo per non essere sensibile ai suoi messaggi inespressi: a Rissa non piaceva Lianne, non le piaceva che stesse così vicino a Keith, non le piaceva trovarsi con lei in uno spazio ristretto.
L’ascensore cominciò a muoversi. Sul monitor le “braccia” del piano cominciarono a contrarsi. Keith fece un profondo respiro e capì, forse per la prima volta, che gli mancava il sottile sentore del profumo. Un’altra concessione a quei maledetti maiali e ai loro nasi ipersensibili. Profumo, acqua di colonia, dopobarba… tutto bandito a bordo della Starplex.
Keith vide il viso di Rissa riflesso sullo schermo del monitor, notò la piega della sua bocca, vide la tensione, il dolore.
Vide anche Lianne. Era più piccola di lui e i lucenti capelli biondi nascondevano parte del suo viso giovane ed esotico. Se fossero stati soli, Keith avrebbe chiacchierato, le avrebbe raccontato una barzelletta, avrebbe sorriso, forse le avrebbe perfino toccato un braccio per sottolineare un concetto. Lei era… viva. Parlare con lei gli dava nuove energie.
Invece non disse nulla. L’indicatore del numero del ponte continuò il suo conto alla rovescia finché la cabina non si fermò con un sibilo al piano dell’appartamento di Lianne.
«Buona notte, Keith» disse Lianne sorridendogli. «Buona notte, Rissa.»
«Buona notte» le rispose Keith. Rissa si limitò a un secco cenno di saluto.
Keith riuscì a seguirla con lo sguardo per alcuni secondi, prima che la porta si chiudesse. Non era mai stato nel suo appartamento. Si chiese come l’avesse arredato.
L’ascensore salì per un altro po’, prima di fermarsi nuovamente. La porta si aprì e Keith e Rissa coprirono il breve percorso che li separava dal loro appartamento.
Una volta dentro, Rissa si sfogò… e Keith avvertì nel suo tono qualcosa che gli fece capire come lei stessa disapprovasse ciò che stava dicendo. «Ti piace, vero?»
Keith soppesò le possibili risposte. Aveva troppo rispetto per l’intelligenza di Rissa per tentare di sviare la discussione con un “chi?”. Dopo un attimo di esitazione, decise che la miglior politica era l’onestà. «È brillante, ha fascino, è bella e svolge bene il suo lavoro. A chi non piacerebbe?»
«Ha ventisette anni» disse Rissa, come se fosse la più terribile delle offese.
“Ventisette!” pensò Keith. “Be’, ecco come stavano le cose. Finalmente un numero concreto. Però… ventisette, accidenti.” Si tolse scarpe e calzini e si sdraiò sul letto lasciando i piedi all’aria.
Rissa sedette sulla sponda opposta. Il suo viso era il ritratto di una persona che rifletteva freneticamente, come se stesse decidendo se era il caso di continuare sullo stesso argomento. Evidentemente decise di no, perché cambiò completamente discorso. «Oggi è venuto da me Carro Merci.»