L’ascensore raggiunse infine la superficie dell’oceano e l’attraversò nei prosaici tunnel del toroide ingegneria. Raggiunse il bordo esterno del toroide e scese per nove livelli fino a raggiungere quello dei moli d’attracco. Keith scese e percorse a piedi il breve tratto fino all’entrata del molo 9. Non appena fu dentro vide Hek, lo specialista in comunicazione simbolica, e lo smilzo umano di nome Shahinshah Azmi che dirigeva il dipartimento scienze dei materiali. Tra i due c’era un cubo nero con spigoli lunghi un metro, poggiato su un piedistallo che lo portava all’altezza degli occhi. Keith li raggiunse.
«Buona giornata, signore» disse l’educatissimo Azmi con voce incolore. Dai vecchi film Keith aveva scoperto quanto potessero essere musicali gli accenti indiani. Sentiva la mancanza della ricchezza e della varietà che le voci umane avevano avuto prima che le comunicazioni istantanee appiattissero ogni differenza. Azmi indicò il cubo. «Abbiamo costruito la capsula temporale con grafite composita e tracce di elementi radioattivi. È compatta, a eccezione del sensore iperspaziale autoriparante che l’aggancerà alla scorciatoia e del sistema di propulsione alimentato a luce stellare che aiuterà il cubo a mantenersi nelle sue vicinanze.»
«E il messaggio per il futuro?» domandò Keith.
Hek indicò uno dei lati del cubo. «L’abbiamo inciso sulle facce» disse, e i suoi latrati echeggiarono nel molo. «Come vedi, consiste in una serie di esempi in altrettanti riquadri. Comincia da qui. Due punti più due punti, uguale quattro punti: una domanda con la sua risposta. Il secondo riquadro, qui, ha due punti più due punti e un simbolo. Poiché qualunque simbolo sarebbe adatto allo scopo, abbiamo usato il punto interrogativo terrestre, ma senza il puntino sotto: potrebbe ingenerare confusione inducendo a credere che rappresenti due simboli anziché uno. Comunque, questo fornisce una domanda e una rappresentazione simbolica del fatto che manca la risposta. Il terzo riquadro mostra il simbolo dell’interrogativo, il simbolo che ho scelto per indicare il concetto di “uguale” e quattro punti, la risposta. Dunque il riquadro dice: la risposta alla domanda è quattro. È chiaro?»
Keith annuì.
«A questo punto abbiamo stabilito un vocabolario per dialogare» disse Hek. «Arriviamo quindi alla vera domanda.» Si spostò sulla faccia opposta del cubo, che portava anch’essa dei segni incisi. «Come vedi, qui ci sono due riquadri simili. Il primo rappresenta graficamente una scorciatoia dalla quale emerge una stella. E vedi questa linea, che rappresenta la scala di misura, e la serie di linee orizzontali e verticali al di sotto? Si tratta di una rappresentazione binaria del diametro della stella in unità pari al lato del riquadro, nel caso ci sia incertezza sul significato dell’immagine. Poi ci sono il simbolo che rappresenta l’uguaglianza e quello che rappresenta l’interrogativo. Ciò che intende dire è: “Scorciatoia con stella emergente uguale a cosa?”. E sotto ci sono il simbolo d’interrogativo, il simbolo di uguale e un ampio spazio vuoto: “La risposta alla domanda qui sopra è…”. Lo spazio significa che desideriamo una replica.»
Keith annuì lentamente. «Brillante. Ottimo lavoro, signori.»
Azmi indicò un’altra faccia del cubo. «Qui invece abbiamo inciso informazioni sui periodi e le posizioni relative di 14 pulsar. Se i futuri fabbricanti di scorciatoie… o chiunque troverà la capsula… disporranno di registrazioni astronomiche che risalgono indietro nel tempo fino a noi, saranno in grado di identificare l’esatto anno in cui il cubo è stato costruito.»
«Inoltre» intervenne Hek «potranno ragionevolmente ritenere che la costruzione del cubo risalga a un periodo immediatamente successivo all’emersione della stella verde dalla scorciatoia… ed è probabile che sappiano a quale data hanno inviato la stella. In altre parole, avranno due modi indipendenti per determinare il periodo al quale inviare una risposta.»
«Funzionerà?» domandò Keith.
«Probabilmente no» rispose Azmi con un sorriso. «È soltanto una bottiglia lanciata nell’oceano. Non mi attendo nessun risultato, ma credo che valga la pena di fare il tentativo. Tuttavia, a quanto mi ha detto il dottor Magnor, se non otterremo una spiegazione valida e se contemporaneamente decideremo che le stelle sono una minaccia, potremmo usare la tecnica waldahud di appiattimento spaziale per fare evaporare le scorciatoie. C’è ovviamente la possibilità che le stelle comincino a sbucare da migliaia di uscite e in tal caso noi non potremmo fare granché per fermarle. Ma se loro sanno che abbiamo una certa capacità di interferenza, forse preferiranno risponderci piuttosto che vederci entrare in azione.»
«Benissimo» disse Keith. «Ma che cosa useremo per rendere appariscente il cubo? Come faremo a essere certi che qualcuno lo troverà?»
«Questa è la parte più difficile» abbaiò Hek. «Ci sono pochissimi modi per evidenziare un oggetto. Uno è quello di renderlo riflettente. Ma qualunque materia usassimo per la capsula, subirà dieci miliardi di anni di sfregamento da parte della polvere interstellare. Certo, si tratterebbe solo di qualche microscopico impatto per secolo, ma in un tempo così lungo l’effetto complessivo sarebbe comunque quello di un’abrasione che renderebbe opaca la superficie.
«La seconda possibilità che abbiamo considerato è stata quella di fare una capsula temporale enorme, che attirasse l’attenzione; oppure massiccia, tanto da incurvare lo spaziotempo. Ma più grande è la capsula e più è probabile che sia distrutta da una collisione con un meteorite.
«L’ultima possibilità era di farla rumorosa… per esempio di farle emettere una gran quantità di segnali radio. Questo però richiede una fonte di energia. Una soluzione ovvia c’è: abbiamo la stella verde qui vicino, e basterebbero dei semplici pannelli solari per ricavare elettricità dalla sua luce. La stella però possiede un considerevole moto proprio, relativamente alla scorciatoia: entro poche migliaia di anni sarà già a un anno luce di distanza, cioè troppo lontana per fornire energia in quantità significativa. Una fonte di energia interna, d’altronde, esaurirebbe il combustibile o vedrebbe decadere in piombo gran parte delle sue sostanze radioattive molto prima della data d’arrivo prevista.»
Keith annuì. «Ma non hai detto che avreste sfruttato la luce stellare convertita in elettricità per alimentare il sistema di controllo della posizione?»
«Sì, ma non resta energia per emissioni di nessun tipo. Siamo costretti a supporre che i fabbricanti di scorciatoie dispongano di rilevatori in grado di rintracciare comunque il cubo.»
«E se non li hanno?»
Hek mosse su e giù le due coppie di spalle. «Se non li hanno… il tentativo non ci sarà comunque costato granché.»
«D’accordo, va bene così» decise Keith. «Questa è la capsula temporale autentica o è un prototipo?»
«Noi la consideriamo un prototipo, ma nel realizzarla è andato tutto alla perfezione» disse Azmi. «Secondo me potremmo benissimo usare questa.»
Keith si rivolse a Hek. «Tu che ne pensi?»
Il waldahud emise un singolo latrato. «Sono d’accordo.»
«Benissimo» disse Keith. «Come suggerite di lanciarla?»
«La capsula in sé è equipaggiata soltanto con razzi Acs» rispose Azmi. «Ma non me la sentirei di mandarla là fuori da sola con quelle creature di materia oscura che sciamano nella zona: probabilmente sarebbe risucchiata dalla loro gravità. Abbiamo però notato che le sfere di materia oscura possiedono una certa mobilità, il che mi fa pensare che non rimarranno per sempre da queste parti. Ho programmato un normale rimorchiatore per condurre il cubo a una certa distanza da qui e riportarlo indietro fra un centinaio di anni, lasciandolo a una ventina di chilometri dalla scorciatoia. Da quel momento in poi, i razzi Acs della capsula temporale dovrebbero bastare per mantenerla nella stessa posizione, relativamente al punto d’uscita.»