«Eccellente» approvò Keith. «È pronto anche il tubo guidamassa?»
Azmi annuì.
«E il lancio può essere effettuato da qui?»
«Certo.»
«Procediamo, allora.»
I tre uscirono dal molo e salirono con un montacarichi fino alla sala di controllo, le cui vetrate ad angolo si affacciavano sull’hangar cavernoso. Azmi prese posto di fronte a una consolle e cominciò ad azionare comandi. Obbedendo ai suoi ordini, un piatto carrello che trasportava un rimorchiatore cilindrico si portò al centro dell’hangar. Braccia meccaniche provvidero poi ad agganciare il cubo alle ganasce situate sulla parte frontale del rimorchiatore.
«Depressurizzazione del molo» disse Azmi.
Tremolanti campi di forza a forma di pannello cominciarono a convergere verso il centro da tre delle quattro pareti, dal pavimento e dal soffitto, spingendo l’aria nel molo verso l’apertura rimasta, quella della quarta parete. Quando tutta l’aria fu raccolta e compressa all’interno di serbatoi, i campi di forza si spensero lasciando dietro di sé il vuoto.
«Apertura della porta spaziale» disse Azmi, agendo su un altro comando. La convessa e segmentata parete esterna cominciò a scivolare nel soffitto. Si cominciò a vedere il buio esterno ma non le stelle, che erano cancellate dall’illuminazione interna del molo.
Azmi premette altri pulsanti. «Attivazione dell’elettronica della capsula.» Quindi schiacciò il tasto che avviava una sequenza preprogrammata per l’emettitore di raggi trattori montato sulla parete posteriore del molo. Il rimorchiatore fu sollevato dal carrello, volò lungo l’hangar, oltrepassò la forma affusolata di un canotto di riparazione attraccato al molo e uscì nello spazio.
«Accensione del rimorchiatore» disse Azmi. La parte posteriore del cilindro si accese del bagliore dei propulsori e in breve fu fuori vista.
«Questo è tutto» commentò Azmi.
«E adesso?» domandò Keith.
Azmi si strinse nelle spalle. «Adesso possiamo dimenticarcene: o funzionerà o non funzionerà… e il secondo caso è il più probabile.»
Keith annuì. «Eccellente lavoro, ragazzi. Grazie. È stato…»
“Rissa per Lansing” disse una voce dagli altoparlanti.
Keith guardò su. “Apro. Ciao, Rissa.”
“Ciao, caro. Siamo pronti per il primo tentativo di comunicazione con le creature di materia oscura.”
“Arrivo. Chiudo.” Rivolse un sorriso ad Azmi e a Hek. «Sapete una cosa? A volte il mio staff è fin troppo efficiente.»
Keith attraversò il ponte di corsa e si mise a sedere al suo posto, al centro della fila posteriore. Ora la bolla olografica non era più riempita dal normale panorama dello spazio circostante, ma da cerchi rossi su uno sfondo biancastro: una mappa delle posizioni delle sfere di materia oscura.
«Bene» esordì Rissa. «Ora tenteremo di comunicare con gli esseri di materia oscura usando segnali radio e luminosi. Abbiamo già inviato una speciale sonda che provvederà a trasmetterli. Si trova a circa otto secondi luce a tribordo della nave e la controllerò con segnali laser. È possibile ovviamente che le creature di materia oscura si siano già rese conto della nostra presenza, ma potrebbe anche non essere così. Nel caso dunque che si rivelino essere gli Sbattiporta, o qualcosa di altrettanto malvagio, ci è sembrato prudente concentrare la loro attenzione su una sonda sacrificabile piuttosto che sulla Starplex.»
«Creature di materia oscura» ripeté Keith. «Solo a pronunciare questo nome mi si impasta la bocca. Ci sarà pure un modo migliore per definirle.»
«Che ne dite di “oscuri”?» propose Rombo, servizievole come sempre.
Keith rabbrividì. «Non è una buona idea.» Si concentrò per qualche secondo, poi alzò gli occhi e sogghignò. «Come vi sembra macho men?»
Jag roteò tutti e quattro gli occhi ed emise un uggiolato di disgusto.
«Come suona “matos”?» suggerì Thor.
Rissa fece cenno di sì. «Vada per matos.» Poi continuò, rivolta a tutti i presenti. «Dunque, come già sapete, Hek ha catalogato i vari gruppi di segnali raccolti dai matos. Basandoci sull’ipotesi che ciascun gruppo fosse una parola, abbiamo identificato quello più utilizzato. E lo useremo come primo messaggio, ripetuto all’infinito. Riteniamo che sia una parola innocua, l’equivalente matos di “il” o qualcosa del genere, e la continua ripetizione priverà il messaggio di ogni eventuale contenuto informativo. Con un po’ di fortuna, però, i matos lo riconosceranno come un tentativo di comunicazione.» Si girò verso Keith. «Ho il permesso di procedere, direttore?»
Keith sorrise. «Accomodati.»
Rissa premette un tasto. «Trasmissione in corso.»
La rete di Rombo lampeggiò. «Be’, qualche effetto l’ha avuto di sicuro» disse. «Il livello delle conversazioni è aumentato enormemente, sembra che stiano parlando tutti insieme.»
Rissa annuì. «La nostra speranza è che facciano una triangolazione e individuino la sonda come sorgente dei segnali.»
«Direi che l’hanno fatto» intervenne Thor un attimo più tardi, indicando lo schermo. «Cinque delle creature planetarie avevano cominciato a muoversi verso la sonda.»
«Adesso viene il difficile» affermò Rissa. «Abbiamo ottenuto la loro attenzione, ma riusciremo a comunicare?»
Keith sapeva che se qualcuno poteva farcela era proprio sua moglie. Rissa aveva fatto parte della squadra che aveva comunicato per la prima volta con gli ib. Quella volta il loro tentativo era iniziato con un semplice scambio di sostantivi: questo schema di luci significa “tavola”, quest’altro “suolo” e così via. C’erano state comunque diverse difficoltà. Il corpo degli ib era così diverso dalla forma bipede umana che per numerosi concetti non esisteva alcun concetto equivalente: alzarsi, correre, sedersi, sedia, vestiti, maschio, femmina… Inoltre, poiché gli ib erano sempre vissuti sotto una coltre di nubi perenni, c’erano innumerevoli altri termini che non potevano essere resi in lingua ibese: giorno, notte, mese, anno, costellazione… Parallelamente, gli ib avevano tentato di trasmettere concetti che nelle loro vite erano basilari: da gestalt biologica a visione onnicomprensiva, oltre a molti termini che descrivevano in modo particolareggiato il movimento su ruote.
Ma quello sforzo era stato una passeggiata in confronto alla comunicazione con esseri di dimensioni planetarie. Gli ib infatti non avevano avuto difficoltà a comprendere certe metafore: era stato facile per loro accoppiare “divertente” con “cibo non nutriente”, per esempio, così come gli umani non avevano faticato a comprendere l’espressione ibese per indicare lo stesso stato d’animo: “pendio in discesa”. Comunicare con alieni grandi quanto Giove, che forse erano intelligenti o forse no, che forse avevano il senso della vista o forse no, che forse capivano i principi della fisica e della matematica o forse no, poteva rivelarsi un’impresa impossibile.
«Le chiacchiere su tutte e duecento le frequenze continuano» avvertì Rombo.
Rissa annuì. «Ma non c’è modo di sapere se sono conversazioni tra le sfere oppure risposte dirette a noi.» Toccò un altro pulsante. «Tenterò con un’altra parola matos quasi altrettanto frequente, ripetuta come prima.»
Questa volta, la cacofonia radiofonica fu bloccata da un matos che, a quanto pareva, aveva zittito gli altri. Poi quello stesso matos ripeté più e più volte una semplice frase di tre parole.
«Adesso dobbiamo tirare a indovinare» annunciò Rissa.
«In che senso?» domandò Keith.
«Be’, la prima domanda che noi faremmo in circostanze simili sarebbe: “chi siete?”. Con l’aiuto di Phantom, io e Hek abbiamo composto un segnale che segue le regole per costruire parole valide, ma che secondo le nostre osservazioni non è mai stato usato dai matos. Ci auguriamo che lo prendano per il nome della Starplex.»
Rissa trasmise parecchie volte la parola costruita, ed ecco infine il primo passo avanti: la stessa sfera che aveva zittito le altre ripeté alla sonda la stessa parola.