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«Be’, se ha davvero dieci miliardi di anni immagino che debba essere molto paziente» disse Thor, ridacchiando.

«Forse puoi chiederglielo in un modo diverso» suggerì Lianne.

«Tutti voi siete qui dallo stesso tempo?» disse Rissa nel microfono.

«Questo gruppo, quella durata» disse la voce tradotta. «Questo uno, durata da quando abbiamo iniziato a parlare, per cento per cento per cento per cinquanta.»

“Questo corrisponde approssimativamente a 500 mila anni” disse Phantom.

«Forse intende dire che i matos in quanto gruppo hanno dieci miliardi di anni» ipotizzò Rissa «mentre lui come individuo ne ha soltanto mezzo milione.»

«Soltanto» disse Lianne.

«Adesso digli quanto vecchi siamo noi» suggerì Keith.

«Intendi l’età della Starplex?» chiese Rissa. «O l’età del Commonwealth, oppure l’età delle nostre specie?»

«Stiamo facendo un confronto di civiltà, direi» osservò Keith «quindi il confronto dovrebbe essere fatto con la più antica razza del Commonwealth.» Osservò il piccolo ologramma di Rombo. «Ovvero gli ib, che esistono nella loro forma attuale da circa un milione di anni, giusto?»

La ragnatela di Rombo luccicò in segno di assenso.

Rissa annuì e avvicinò la bocca al microfono. «Noi durata da quando abbiamo iniziato a parlare, per cento per cento per cento per cento. Questo uno durata da quando abbiamo iniziato a parlare per cento “più” cento.» Toccò l’interruttore. «Gli ho detto che come civiltà abbiamo un milione di anni, ma che la Starplex è nata soltanto due anni fa.»

Occhio di Gatto replicò ripetendo il numero relativo alla sua età personale seguito dalla parola “meno”, poi pronunciò la formula della piccola età della Starplex aggiungendo la parola “uguale” e infine ripeté la stessa frase che aveva usato per indicare la sua età. «A grandi linee» disse Rissa «credo intenda dire che la nostra età non è nulla, paragonata alla sua.»

«Be’, quanto a questo ha ragione» ammise Keith con una risata. «Mi chiedo come ci si senta a essere tanto vecchi.»

15

Era rarissimo che Keith entrasse in una delle zone ibesi della nave. La gravità veniva mantenuta a un livello pari al 41 per cento in più di quella terrestre (e il 72 per cento in più di quella standard della nave), e lui si sentiva come se pesasse 115 chili al posto dei soliti 82. Per brevi periodi riusciva a sopportarla, ma non era piacevole.

In quelle zone i corridoi erano molto più ampi che nel resto della nave e le aree tra un ponte e l’altro erano più spesse, il che significava soffitti più bassi. Non tanto da doversi chinare, ma tendeva a farlo ugualmente. L’aria era calda e secca.

Keith arrivò alla stanza che stava cercando, quella con la porta marcata con una matrice di luci gialle che formavano un rettangolo con due cerchietti sotto le estremità della base. Keith non aveva mai visto un treno con le ruote se non in un museo, ma il pittogramma gli ricordava ugualmente un vagone, un carro merci.

Keith parlò all’aria: «Per favore, Phantom, falle sapere che sono qui.»

Phantom fece un cinguettio, segno che l’aveva riconosciuto. Un attimo più tardi, presumibilmente con il consenso di Carro Merci, la porta rientrò nella parete.

Gli appartamenti degli ib erano molto lontani dagli standard umani. Sulle prime apparivano esageratamente grandi, la stanza in cui Keith era entrato misurava otto metri per dieci. Poi però ci si rendeva conto che avevano esattamente le stesse dimensioni di tutti gli altri appartamenti della nave, solo che non erano suddivisi in zone separate per il sonno e per le abluzioni. Non c’erano sedie né letti, ovviamente, né c’erano tappeti: il pavimento era ricoperto di plastica dura. Sul loro mondo d’origine, nei tempi preindustriali, gli ib edificavano montagnole di terra dell’esatta grandezza necessaria per incastrarsi tra le loro ruote, come piedistallo per il telaio e per gli altri componenti quando le ruote si separavano temporaneamente dal corpo. Carro Merci aveva predisposto in un angolo della stanza l’equivalente di una di quelle montagnole, che costituiva l’intero mobilio della stanza.

Le decorazioni delle pareti erano secondo Keith strane e sconcertanti: immagini a forma di arachidi che consistevano di varie inquadrature, spesso distorte, dello stesso oggetto da differenti punti di osservazione e sovrapposte luna all’altra. Non riuscì a capire che cosa rappresentassero quelle sulla parete più lontana, ma rimase scioccato quando osservò con attenzione quelle più vicine: erano studi di feti ed embrioni umani e waldahud, con arti appena abbozzati e strane teste traslucide. Carro Merci era una biologa, dopo tutto, e probabilmente la vita aliena la affascinava, ma la scelta di quei soggetti era sconcertante.

Carro Merci, che si trovava dalla parte opposta della stanza, rotolò verso Keith. Era un vero stress subire l’avvicinamento di un ib da una certa distanza: avevano tutti l’abitudine di accelerare alla massima velocità per poi inchiodare a un paio di metri. Keith non aveva mai sentito di nessun umano spiaccicato, ma aveva sempre il timore di poter essere il primo.

Le luci dell’ib lampeggiarono. «Dottor Lansing» disse. «È un piacere inaspettato. La prego, si accomodi… non ho sedie da offrirle, ma so che la gravità è troppo elevata qui. Si senta libero di appoggiarsi alla mia montagnola da riposo.» Una corda dondolò nella direzione della costruzione a forma di sella su un lato della stanza.

Il primo pensiero di Keith fu di declinare l’offerta. Però… accidenti, era scomodissimo stare in piedi in quella gravità. Andò alla montagnola e vi si appoggiò di schiena. «Grazie» disse. Non sapeva da dove cominciare, ma di una cosa era sicuro: avrebbe offeso l’ib se avesse sprecato il suo tempo. «Rissa mi ha chiesto di parlarle. Dice che presto lei si scorporerà.»

«Cara, dolce Rissa» commentò Carro Merci. «La sua preoccupazione è toccante.»

Keith guardò la stanza, riflettendo. «Voglio che lei sappia» disse infine «che non è obbligata a scorporarsi, almeno fino a quando resterà a bordo della Starplex. L’intero equipaggio della nave è considerato de facto personale diplomatico: posso sistemare le cose in modo da garantirle l’immunità.» Guardò la creatura. Avrebbe voluto che avesse una faccia… o almeno due occhi normali, dei quali poter leggere l’espressione. «Il suo servizio è stato esemplare. Non c’è ragione per cui lei non debba continuare a prestarlo a bordo della Starplex fino al termine naturale della sua esistenza.»

«Lei è gentile, dottor Lansing. Molto gentile. Io però devo essere onesta con me stessa. Cerchi di capire che, pur non avendo mai parlato con nessuno della mia futura scorporazione, sono ormai secoli che mi preparo ad affrontarla, sia mentalmente sia fisicamente. Ho programmato tutti gli eventi della mia vita per concludersi adesso: non saprei che farmene di altri quarant’anni.»

«Potrebbe continuare le sue ricerche. Chissà, con un altro mezzo secolo di lavoro sul problema della senescenza, forse ce la farebbe. E a quel punto non dovrebbe morire mai più.»

«Un’eternità di vergogna, dottor Lansing? Un’eternità di sensi di colpa? No, grazie. Sono inalterabilmente legata al corso d’azione prestabilito.»

Keith rifletté per qualche istante sulle sue parole. Considerò rapidamente obiezioni e contro-obiezioni, nuove argomentazioni, nuove proposte, ma le scartò tutte. Non erano affari suoi e si sentiva a disagio. Alla fine annuì. «C’è qualcosa che io possa fare per renderglielo più facile? Ha bisogno di attrezzature speciali?»

«Avrà luogo una cerimonia. In genere pochi ib vi partecipano, perché andarvi significa che il colpevole finisce per far sprecare loro altro tempo. Credo che soltanto i miei amici ib più stretti verranno. Di conseguenza non avrei bisogno di una sede molto ampia. Ma, poiché me l’ha chiesto, mi farebbe piacere usare per la cerimonia, se possibile, uno dei moli. E vorrei che, al termine, le mie parti componenti fossero eiettate nello spazio.»