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Keith mormorò a Rissa: «Quanto può sopravvivere il baccello senza la pompa?»

Rissa si girò a guardarlo, con gli occhi umidi. Li chiuse e li riaprì diverse volte per scacciare le lacrime. «Un minuto» disse infine. «Forse due.»

Keith le prese una mano fra le sue e la strinse.

Per circa tre minuti regnò una calma assoluta. Il baccello spirò con serenità, senza rumori né movimenti… ma in qualche modo gli ib avvertirono il momento esatto della dipartita e, tutti contemporaneamente, cominciarono ad avviarsi verso il retro dell’hangar. Tutte le reti erano buie, non una parola venne scambiata tra loro. Keith e Rissa furono gli ultimi ad andarsene. Entro breve sarebbe tornato Farfalla, Keith ne era al corrente, per provvedere a lanciare nello spazio i resti di Carro Merci.

Mentre con Rissa usciva dal molo, Keith pensava al proprio futuro. A quanto pareva sarebbe vissuto a lungo, molto a lungo. Si chiese se con miliardi di anni alle spalle sarebbe riuscito a sfuggire agli errori del proprio passato.

Quella notte non riuscirono a dormire, ovviamente. La morte di Carro Merci aveva sconvolto Rissa, e Keith era alle prese con i suoi demoni personali. Giacquero a fianco a fianco nel letto, con gli occhi aperti, Rissa intenta a fissare il soffitto scuro, Keith concentrato sulla tenue macchia rossa creata dalla luce che filtrava intorno alla plasticarta che copriva l’orologio.

Rissa parlò, pronunciando un’unica parola. «Se…»

Keith si girò a pancia in su. «Scusa?»

Lei rimase zitta per un po’. Keith era sul punto di sollecitarla di nuovo a parlare, quando lei disse, a voce bassissima: «Se hai dimenticato come si scrivono la u e l’apostrofo, ti ricorderai di me… ti ricorderai di noi?» Si girò su se stessa e lo guardò. «Tu vivrai per altri dieci miliardi di anni. Non voglio nemmeno provare a comprenderlo.»

«È… confonde la mente» ammise Keith, scuotendo la testa appoggiata al cuscino. Anche lui rimase in silenzio per un po’. Poi disse: «La gente ha sempre fantasticato sulla vita eterna. In un certo senso, la parola “eterno” intimidisce meno di una data specifica. L’immortalità la posso capire, ma la precisa informazione che sarò ancora vivo fra dieci miliardi di anni mi sembra del tutto priva di senso.»

«Dieci miliardi di anni» ripeté Rissa, scuotendo la testa. «Il sole della Terra sarà morto da tempo, la Terra stessa sarà morta.» Un tonfo. «Io sarò morta.»

«Forse. O forse no. Se la spiegazione è il prolungamento della vita, allora certamente all’origine ci sono i tuoi studi qui sulla Starplex. Se così non fosse, perché proprio io dovrei aver beneficiato del processo? Forse saremo vivi entrambi, fra dieci miliardi di anni.»

Silenzio.

«Insieme?» sbottò Rissa, alla fine.

Keith espirò rumorosamente. «Non lo so. Non ho nessuna previsione da fare in questa faccenda.» Capì che le aveva dato la risposta sbagliata. «Però… se dovrò affrontare un futuro così lungo, vorrei che fosse con te.»

«Davvero?» disse Rissa d’un fiato. «Che cosa rimarrebbe da esplorare, da imparare l’uno dell’altro dopo tutto quel tempo?»

«Forse non si tratta di un’esistenza fisica» suggerì Keith. «Forse la mia coscienza sarà trasferita in una macchina. Non c’era una setta, a New New York, che voleva fare una cosa simile? Copiare i cervelli umani nei computer? Oppure… forse l’intera umanità è diventata un’unica mente gigantesca, nella quale è però ancora possibile rintracciare le personalità originarie. Sarebbe…»

«Sarebbe meno spaventoso che non l’idea di essere ancora vivo come individuo fra dieci miliardi di anni. Nel caso che tu non abbia ancora fatto il conto, ti informo che finora hai vissuto appena due centesimi di milionesimo dell’età che raggiungerai.» Fece una pausa e sospirò.

«Che c’è?» chiese Keith.

«Niente.»

«No, c’è qualcosa che ti ha fatto arrabbiare.»

Rissa rimase in silenzio per una decina di secondi. «Be’ è solo che non è facile convivere con la tua attuale crisi della mezza età. Non mi auguro certo di assistere alle tue mattane quando passerai i cinque miliardi di anni.»

Keith rimase senza parole. Alla fine trovò il fiato almeno per ridere, ma la risata gli sembrò vuota, forzata.

Ancora silenzio, durò così tanto da fargli pensare che Rissa si fosse finalmente addormentata. Lui non ci sarebbe riuscito. Non ancora, non con quei pensieri che gli turbinavano nella testa.

«Dulcinea?» sussurrò, cercando di tenere la voce abbastanza bassa da non svegliarla, se lei fosse stata già addormentata.

«Mmm?»

Keith deglutì. Forse avrebbe fatto meglio a non introdurre l’argomento, tuttavia… «Tra poco sarà il nostro anniversario.»

«La settimana prossima» disse la voce nel buio.

«Sì» confermò Keith. «Arriveremo giusto a vent’anni, e…»

«Venti “meravigliosi” anni, amore. Si dà per scontato che tu inserisca sempre l’aggettivo.»

Un’altra risata forzata. «Scusa, hai ragione. Venti meravigliosi anni.» Fece una pausa. «E in quel giorno abbiamo deciso di rinnovare i nostri voti nuziali.»

Nella voce di Rissa si avvertì una punta di gelo. «Sì?»

«Niente, niente. Fai finta che non abbia parlato. Sono stati davvero venti anni meravigliosi.»

Nel buio Keith scorgeva a malapena il suo volto. La vide annuire, poi fissarlo, cercare gli occhi di lui e sforzarsi di guardare al di là di essi, di vedere la verità, di cogliere ciò che lo turbava. Poi arrivò la comprensione e lei si girò su un fianco dandogli le spalle. «Non ho obiezioni» disse infine.

«Su che cosa?»

E lei pronunciò le ultime parole che si scambiarono quella notte. «Non ho obiezioni» disse «se non vuoi dire “finché morte non ci separi”.»

Keith era seduto alla sua postazione sul ponte. Oltre il bordo del monitor galleggiavano gli ologrammi di tre umani e di un delfino. Con la coda dell’occhio notò una delle porte del ponte aprirsi per fare entrare Jag, con il suo passo ondeggiante. Il waldahud non andò però alla sua postazione. Si fermò invece davanti a quella di Keith e attese, con un’espressione che denunciava una certa agitazione, che Keith terminasse la conferenza in corso con le teste olografiche. Dopo che li ebbe congedati, il direttore guardò Jag.

«Come sai, i matos sono in movimento» disse Jag. «Anzi, per dirla con franchezza, la loro agilità mi appare sorprendente. Sembrano lavorare insieme: ogni sfera indirizza verso le altre le sue forze, gravitazionale e repulsiva, per cooperare nello spostamento dell’intera comunità. Nel farlo, però, si sono completamente riconfigurate, in modo tale che i matos che prima non riuscivamo a vedere con chiarezza sono adesso alla periferia dell’assembramento. Ho fatto qualche previsione su quale sarà il prossimo matos che si riprodurrà, e mi piacerebbe mettere alla prova la mia teoria. Ecco perché ti chiedo di spostare la Starplex dall’altra parte del campo di materia oscura.»

«Phantom, dammi uno schema dello spazio locale» disse Keith.

A mezz’aria tra Keith e Jag apparve una rappresentazione olografica. I matos si erano spostati dirigendosi verso il lato opposto della stella verde, cosicché la Starplex, la scorciatoia, la stella e la comunità dei matos si trovavano grossomodo lungo una linea retta.

«Se ci spostiamo sul lato opposto della comunità dei matos perderemo di vista la scorciatoia» osservò Keith. «Rischieremmo di perdere l’arrivo di un Watson. Non potresti mandare laggiù una sonda?»

«La mia previsione si basa su limitatissime concentrazioni di massa. Avrò bisogno degli iperscopi del ponte uno o del ponte settanta per compiere le osservazioni necessarie.»

Keith esaminò le alternative. «Va bene.» Premette un tasto sulla consolle e dal nulla sbucarono i soliti ologrammi di Thor e Rombo. «Rombo, per favore controlla i tempi di chi sta facendo osservazioni esterne. Scopri quale sarà il primo momento in cui potremo spostare la nave senza interrompere il loro lavoro. Thor, in quel momento portaci sul lato opposto del campo di materia oscura, nella posizione di cui Jag ti fornirà le coordinate.»