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(- Sono stato uno stupido nel fare le mosse, ieri. Non riesco a fare a meno di spostarmi a destra, e faccio peggio quando Duun mi sgrida; preferirei che mi colpisse, non m’importa se mi colpisce, me lo merito, quando scopro il fianco in quella maniera. È come se fossi arrivato a un punto oltre il quale non posso più migliorare. Duun lo sa. Non sono abbastanza bravo per essere hatani, mi manca qualcosa. Si è dato tanto da fare per insegnarmi, e io continuo a spostarmi a destra come uno sciocco. E lui deve continuare a sgridarmi. Dovrebbe colpirmi col coltello, dopo, forse, me ne ricorderei.)

C’era una cicatrice sul suo braccio, e una su quello di Duun.

(Lo ricorderò sempre.)

— Ragazzo.

Il registratore si spense. Era stata Sagot. Thorn sbatté le palpebre. Sagot gli aveva portato una pillola e una tazzina d’acqua. (Dei, sono i medici, allora. Cosa non va? Vogliono solo darmi un’occhiata?)

— Sagot, non voglio quella roba. Sto bene.

Lei non tirò indietro la mano. Non c’era scelta, allora. Prese la pillola dal palmo di Sagot, nero e rugoso, e se la mise in bocca. Non aveva bisogno dell’acqua per inghiottirla, ma avvertì un immediato benessere allo stomaco che minacciava di rivoltarsi. (È per questo che Sagot si comporta in maniera strana? C’è davvero qualcosa che non va in me? Duun lo pensa?)

— Voglio che tu venga di là con me — disse Sagot. — Sì, sono i medici. Dovrai stenderti per un po’, e voglio che tu lo faccia senza storie.

(Odori di paura, Sagot. E anch’io, immagino. Dei, cosa sta succedendo?)

Si alzò. Era più alto di Sagot. Lei gli prese la mano. (Sono hatani, Sagot, non dovresti…) Ma non diceva mai di no a Sagot. Lei lo condusse fino alla porta, sempre per mano, e lo fece entrare in una piccola stanza che non lasciava dubbi: era piccola, piena di macchinari e strumenti medici, con un tavolo. Sagot non gli lasciò la mano. Evidentemente non aveva intenzione di parlare della faccenda. (Ha paura. Come dovrei sentirmi io?) Ma rimase lì fermo, mentre dei medici entravano e gli dicevano di togliersi il kilt e di stendersi.

— Non preoccuparti per me — disse a Sagot. Non voleva spogliarsi mentre lei era lì, non perché pensasse di sconvolgerla (ho quattordici pro-nipoti, ragazzo) ma proprio perché lei non lo sarebbe stata; l’avrebbe guardato come un bambino, e Thorn-bambino era già troppo nudo. Sagot invece rimase. Thorn le voltò le spalle, si slacciò il kilt e salì sul tavolo come gli avevano detto i medici. La testa gli girava e si sentiva le membra lontane dal corpo. Scivolò allora in un’immensa calma, che di per sé lo allarmò.

(Era una droga quella che Sagot mi ha dato. Duun lo sa? Sa dove sono, quello che stanno facendo, l’ha ordinato lui?)

Gli applicarono degli elettrodi sul corpo. Se lo sentiva lontano, molto lontano. Parlavano in mormoni, oppure era successo qualcosa al suo udito. Regolarono uno schermo sulla sua testa. Qualcosa di morbido si appoggiò sul suo corpo nudo, e si rese vagamente conto che gli avevano messo addosso un lenzuolo. Gliene fu grato. (Fa freddo qui. Certe volte non si rendono conto di quanto senta freddo; loro hanno la pelliccia, io no. E adesso sto sudando… ) Qualcosa gli strinse le gambe, poi il petto. — Parlategli, per amore degli dei! Non è mica un pezzo di legno.

— Sagot-mingi, dobbiamo chiedervi di fare silenzio; con rispetto, mingi Sagot.

Qualcosa si appoggiò pesantemente sulle spalle di Thorn e lo scosse. — Tieni gli occhi aperti. Guarda in alto.

Thorn obbedì alla voce. E risentì i suoni dei suoi nastri, più volte.

— Batti le palpebre. Bene, così. Puoi batterle, se vuoi.

— Sta seguendo, vero?

La voce svanì. Sentì un’altra voce, che gli parlava. Aveva delle immagini davanti a sé, si trovava in un simulatore; altre voci, altre immagini e gente come lui che si muoveva nel buio; e poi facce che gli dicevano parole confuse, macchine e ancora macchine.

Cercò di liberarsene.

Degli occhi lo fissavano, simili a specchi. Altre macchine che ruotavano nel buio e braccia che si muovevano…

Lottò. Fuggì, e lottò.

— Questa è la tua eredità — gli disse una voce dal buio. — Accettala, Haras-hatani. Questa è la tua eredità. Accetta quello che senti e vedi. Smettila di opporti. Accettala. Questa è la tua eredità.

Caos d’immagini.

— Ascolta i suoni. Impara, Haras-hatani. Ricorda queste cose.

— Svegliati.

Disteso sul tavolo e coperto dal lenzuolo, Thorn era tutto in un bagno di sudore. Avrebbe voluto soltanto rimanersene lì, tranquillo. Gli occhi gli facevano male come se ci fosse dentro del sudore; e forse era così. Qualcuno gli asciugò la faccia, e il panno gli diede delle sensazioni neutre: umido e ruvido, né freddo né caldo. Qualcuno gli sollevò un peso dalle gambe e dal petto. — Sei sicuro di avere fatto bene? Non è ancora sveglio. — Lo era, ma preferì tenere il segreto per sé, e fissare l’acciaio delle macchine, ignorando le facce e le mani, e l’improvvisa nudità del suo corpo mentre gli toglievano gli elettrodi, con piccoli strattoni che avrebbe dovuto sentire, ma non sentiva.

— Non ha un bel colore.

(Ho freddo, stupido.)

Qualcosa gli punse il braccio. Un dolore sopportabile. Dopo un attimo sentì il cuore battere forte, come negli incubi.

(Andate via. Lasciatemi solo. Non toccatemi.)

— Tenetelo fermo, non fatelo muovere.

Batté le palpebre. I medici gli tenevano stretti gli arti facendogli male. Alzò la testa. — Lasciatemi andare. Sono sveglio. Voglio sedermi.

Loro assunsero un’aria sciocca, lasciando cadere le orecchie. Dopo averci pensato un po’, lo lasciarono andare; uno che stava al suo fianco gli mise una mano sotto la schiena, e un altro lo aiutò ad alzarsi.

— Avete finito? — chiese Thorn.

— Abbiamo finito — rispose uno. Raramente gli parlavano. — Ti metteremo un po’ a letto.

— Io torno a casa. — Thorn scese di scatto dal lettino. I piedi erano insensibili, ma le ginocchia lo ressero. Il medico allungò una mano, e Thorn lo fermò sollevando la sua: un gesto calmo, d’avvertimento. Il medico colse l’avvertimento e si ritrasse.

— Sagot — disse qualcuno. — Sagot, venite, presto.

Thorn aspettò allora che Sagot entrasse. Si ricordò che era nudo. — Voglio i miei vestiti. — Un medico gli diede il kilt. Thorn lo prese e lo indossò faticosamente: aveva le dita intorpidite e le gambe malferme.

Una porta si aprì. Alzò gli occhi su Sagot. — Sagot — disse. Cercò di essere cortese. Duun gli avrebbe fatto del male se fosse stato maleducato coi medici, e Thorn era disperato. Parlò con voce molto calma e gentile, senza agitarsi. — Sagot, dicono che dovrei andare a letto qui, ma preferirei andare nel mio a dormire. Per favore, portami a casa, Sagot.

Lei lo guardò serrando la sua bocca già sottile. Per un po’ non disse niente. — Va bene — acconsentì alla fine. — Chiamate la guardia e Duun; ditegli che stiamo arrivando. — Sagot gli venne vicino e strinse tutte e due le mani intorno alle sue. Insieme, Thorn e Sagot uscirono da quella stanza.

— Aspettiamo qui un momento — disse Sagot nell’altra stanza. E rimase lì con lui, tenendogli il braccio. Dopo un momento la porta si aprì e apparve la guardia che lo accompagnava sempre. Si chiamava Ogot. Non parlava molto, ma era simaptico; era un uomo di Duun, e se Ogot l’aveva portato in quel posto senza dirgli niente, forse era quasi all’oscuro di tutto. Ogot sembrò preoccupato vedendolo, e Thorn provò vergogna per la sua debolezza.

— Va tutto bene — disse Sagot — gli hanno solo dato dei sedativi; cammineremo adagio. Il ragazzo vuole andare a casa subito. Vieni, Thorn.

Non era nel suo letto; era sdraiato sui cuscini del rialzo che toccava la parete della sala. Le finestre mostravano rami agitati dal vento e vetri bagnati di pioggia. Dall’audio venivano rumori di tuoni e d’acqua. E c’erano bagliori di lampi. Il condizionatore soffiava aria umida e fresca e l’odore dei boschi sotto la pioggia. Disteso sui cuscini, Thorn se ne stava lì, nella stanza che conosceva (ma le pareti cambiavano sempre) e sbatteva le palpebre. Conosceva quegli alberi, quello piegato, il ramo contorto, le rocce, la via per arrampicarsi…