— Gli agenti dell’ufficio devono dormire nel letto di Shbit, se sono così sicuri di quello che non ha. Non mi piace la loro compiacenza. Diglielo.
— Stanne fuori, Duun. Per gli dei, se ti metti contro Shbit rischi di riportare l’intera faccenda sotto gli occhi dell’opinione pubblica, e già ci siamo stati abbastanza. Il concilio se ne sta tranquillo, adesso. I fondi arrivano regolarmente.
— So quando Shbit si muoverà. Shbit non lo sa ancora. — Duun decise di prendersi il tè e se ne versò una tazza. — Bisogna supporre che tenga prigioniera Betan; ma io preferisco non supporre niente. Che notizie da Gatog? Qualche particolare?
— Hanno risolto il problema. Si è scopèrto che era un guasto nel software. Si sono annullati a vicenda.
Duun aggrottò la fronte. — Lo immaginavo. Falso allarme. Maledizione, Ellud. Un altro errore del genere, e avremo i consiglieri addosso.
— Potrebbe essere peggio.
— Credimi: questo non lo dimentico mai. — Duun prese la tazza con le due dita della destra, e la fece girare con la sinistra, sentendo sotto i polpastrelli il disegno inciso sulla creta naturale: la costosa casualità dell’arte ubo, che era come Ellud; raffinata ma priva di un piano. I paradossi di quell’uomo lo rendevano perplesso da una vita. — Voglio vedere i rapporti su Shbit. Voglio sapere quando respira e quanto tempo tiene il fiato. Secondo per secondo. Dillo ai tuoi agenti.
— …nel 1582 il primo reattore entrò in funzione nella provincia di Toghot…
— … nel 1582 la Lega Dsonan fondò il concilio internazionale. La motivazione immediata era la siccità ciclica a Thogan, che quell’anno aveva creato grandi difficoltà per i diciassette milioni di abitanti della regione, che si stende da…
— … nel 1593 venne lanciato il primo satellite dalla costa di Dardimuur…
(Satellite?)
— … nel 1598 fu Botan, e non Gelad, il primo shonun ad andare nello spazio.
— Sagot. — Il cuore di Thorn batteva molto veloce. Alzò gli occhi dal monitor, e guardò la faccia vecchia e tranquilla vicino a lui. — Sagot, noi siamo nello spazio.
— Ero una bambina quando Nagin mise piede sulla luna. Ricordo che venne mio fratello maggiore, mi portò davanti alla televisione, dicendomi che quella era la luna e che lo shonun ci camminava sopra. Nagin, Ghotisin e Sar. Uscii al buio… era primavera, ed era una notte serena; guardai la luna cercando di vedere dov’erano. Naturalmente non potevo vederli. Guardai e riguardai, poi mio fratello mi venne vicino. “Un giorno o l’altro ci andrò anch’io” disse. E fu così. Volò fino a Dothog, e camminò su un altro mondo. Mi mandò una fotografia dove c’era lui, davanti a un mare di dune rosse. Non si capisce che è lui perché ha addosso una tuta ingombrante, e la visiera scura abbassata, ma io so che è lui. Ho ancora la foto.
(Macchine nel buio. Cose che ruotano.)
(“Il mondo è grande, pesciolino, più grande di quanto tu sappia.”)
— Posso vederla? Posso conoscere tuo fratello?
— È morto. È morto… quarant’anni fa. Ebbe un guasto alla tuta, nel deserto di Yuon, su Dothog. L’aria uscì. Ma ho la fotografia. Te la porterò.
— Mi dispiace, Sagot.
— Ragazzo, uno prova dolore, ma poi passa. Adesso, appena lo ricordo mio fratello. Non la sua fine, ma lui vivo. Hai presente il porto delle navette, appena fuori da Dsonan? Le avrai sentite le navi quando partono, e al momento dell’atterraggio… come un tuono, anche attraverso i muri…
— È quello il rumore che si sente? - (“Duun, cos’è?” “No lo so, nelle case si sentono tanti rumori. Pensa a quello che devi fare, pesciolino.”)
— … ogni cinque giorni circa. Portano i carichi fino alla stazione e riportano giù ciò che vi viene fabbricato, medicine e roba del genere. C’è ancora la base di Dothog, è una piccola città adesso, fatta di cupole e di tunnel. Tutti scienziati. All’incirca una volta all’anno ci si può andare, dalla stazione, però è terribilmente costoso; fa parte del genere di cose che solo i ricchi possono permettersi, e nello stesso tempo è un viaggio troppo duro per piacere alla maggior parte della gente ricca; ma ci sono lo stesso alcuni visitatori. Ci ho pensato: mi piacerebbe andare, ma ci vuole un anno per l’andata e altrettanto per il ritorno; e c’è sempre stato qualcosa che me l’ha impedito. Non so… — Sagot si guardò le mani, poi alzò gli occhi. — Credo, in fondo in fondo, di essere superstiziosa. Penso che mio fratello sia ancora là, che si arrampica sulle dune, spassandosela; ma se ci andassi per me sarebbe solo un posto. Vedrei la città cresciuta e i dannati turisti; uscirei nel deserto, e lui non ci sarebbe. Allora sarebbe morto per me, veramente morto… oh, dei. Scusami ragazzo, parlo come una vecchia. Mi volevi chiedere dello spazio.
— Ci sei stata?
— Sono stata sulla stazione. È un posto desolato, tutto tubi e tunnel…
(Tunnel. Tunnel metallici. Senza fine, che piegano verso l’alto, quando ci si cammina dentro…)
— … e ciascuna parte è uguale a tutte le altre. E, cosa strana, non si vedono molto le stelle. Le puoi vedere dalla navetta, se vai davanti. Ti lasciano. È bellissimo. Il mondo è bellissimo. Non l’hai visto in fotografia?
(Il globo scuro con il fuoco che viene su di esso, il posto roteante…)
— No, naturalmente no, non l’hai visto. Ho un bellissimo nastro per finestra. L’ho comprato alla stazione. È la terra vista dallo spazio. Credo che potrò trovartene una copia. Si può vedere il sole spuntare dietro la curva del mondo; i mari e le nuvole a spirale…
— Si sta risvegliando… si sta risvegliando. Aspetta a fargli l’iniezione. Sta rinvenendo.
— Quello l’ha scosso. È successo qualcosa.
— Zitti. Ci sente. Portiamolo fuori di qui.
— Ci senti, Thorn? Muovi la mano se ci senti.
— Aaaaaaaaiiiiii!
Era la sua voce. Era Thorn quello che gridava. Uscì combattendo dal buio, e il buio era attorno a lui, con le stelle che splendevano a vertiginosa distanza.
La luce brillò, bianca e terribile, Thorn si gettò giù dal letto, accecato, e colpì il muro con la schiena, prima di scorgere Duun sulla soglia, contro il buio del corridoio; Duun nudo, appena uscito dal letto, lì che lo guardava. — Tutto bene, Thorn?
Thorn si appoggiò alla superficie fredda del muro. Le sue membra cominciarono a tremare, per una reazione. — Mi dispiace, Duun.
Duun continuava a guardarlo. Aveva le orecchie appiattite. Thorn si staccò dal muro. Le finestre mostravano il sorgere del sole su una prateria. Duun aveva scombussolato il timer. Il condizionatore d’aria immetteva odore d’erba e di rugiada fresca. Thorn rabbrividì ancora, sentendone il soffio sulla pelle. Lembi di coperte sfioravano la sabbia là dove cominciavano le impronte della sua fuga.
— È stato un incubo — disse Thorn. — Ho sognato… — (Facce, suoni.) Ricominciò a tremare. — Facce come la mia, Duun… Non mi hanno fabbricato!
Duun non disse niente. Aveva quell’espressione da maschera che indicava come non avesse intenzione di dire niente.
— È così? — insistette Thorn.
— Chi dice che non abbiano fabbricato i nastri?
— Non farmi questo, Duun!
— Non hai un’aria assonnata. Vuoi una tazza di tè, qualcosa da mangiare?
Thorn si arrese. Duun era gentile. Duun lo stava distogliendo di nuovo dal problema. Thorn conosceva i suoi trucchi. Strappò dal letto le coperte piene di sabbia e le buttò sul pavimento. Il materasso aveva bisogno comunque di esser voltato e battuto, e le lenzuola di essere lavate. Duun era uscito, lasciando aperta la porta. Thorn aprì l’armadietto sul lato del rialzo e prese i vestiti indossati il giorno prima; doveva però ancora fare il bagno.