Alla fine si alzò e andò a sedersi di fronte a Sagot. — Puoi sgridarmi, Sagot. Per favore.
— Non ne ho bisogno.
(Colpito. Abile e mortale come il sarcasmo di Duun quando era arrabbiato.) Thorn sentì una stretta allo stomaco. — Perdonami, Sagot Sagot, non odiarmi.
— Cattivo. E astuto. Si vede che sei uscito dalle mani di Duun. Torniamo ai medici, allora?
— Non dirmi che non mi odiano. So leggere i gesti; so leggere gli occhi, Sagot. Mi odiano e hanno paura di me, e sono stati loro a farmi quello che sono. È ragionevole?
— Forse è dell’hatani che hanno paura. Ci hai pensato? Alla gente non piace essere letta. Un hatani chiede ospitalità; tu gli dai cibo e un posto per dormire, e cominci a pensare a ogni mossa che fai, perché sai che lui ti legge dentro, costantemente, attraverso ogni più piccolo gesto. Ci vorrebbe una persona molto stupida, o molto innocente, per essere sereni sotto lo stesso tetto con un hatani.
— Un hatani non giudica se non gli viene chiesto. Qualche volta neppure allora. Perché dovrebbero preoccuparsi?
— Senso di colpa. Ognuno è colpevole di qualcosa. Un hatani ti fa sapere di cosa sei colpevole.
— Anche gli hatani sono colpevoli, Sagot.
— Ma lo nascondono. Sanno come non farsi leggere dentro, vero? Se vogliono veramente. Qualche volta non vogliono. — Sagot si alzò, venne a sedersi vicino a lui e gli mise un braccio attorno alle spalle. — Qualche volta non vogliono, vero? Avanti, appoggiati a me, non lo dirò a nessuno.
— Parlami dei test, Sagot.
— Cattivo. — Con la mano gli premeva la spalla vicino al collo, e questo lo rendeva nervoso. Si mosse, e lei spostò la mano sulla schiena. — Hai proprio una mente hatani. Stai crescendo.
— Sento delle parole, Sagot; suoni nella testa, e parole nei suoni.
— Cosa dicono queste parole?
— Mi salutano, vogliono qualcosa, non so cosa; parlano del sole e della terra, della matematica, della chimica, dell’ossigeno, del carbonio, più e più volte, e parlano di cose senza importanza e degli elementi, delle reazioni dentro il sole, del ciclo di vita delle stelle…
I muscoli delle braccia di Sagot si erano tesi. Thorn si voltò a guardarla da vicino e vide i suoi occhi dilatarsi e contrarsi. — Ti ho spaventato? — chiese Thorn.
— Continua a parlare.
— Non dovrei parlarti di queste cose. Me lo dici sempre.
— Di questo puoi parlare. Vai avanti.
— Non c’è altro. Non riesco a ricordare altro. Vedo questo posto deserto, e un posto come una stazione spaziale. Vedo la terra nello spazio, con il sole che sorge, e facce… facce come la mia; la stazione spaziale ne è piena: persone come me che vanno e vengono, parlano… qualche volta sono arrabbiati, e riesco a leggere dentro di loro, anche se non so cosa dicono. C’è una donna che vuole qualcosa… Duun dice che me la immagino, ma non immaginerei mai una cosa così. Ha la bocca tutta rossa, i capelli lunghi, e gli occhi sono dipinti attorno ai bordi; vuole assolutamente qualcosa ed è arrabbiata con un uomo. Lui è spiacente, e loro continuano a incontrarsi in uno di quei posti dove la gente mangia, e hanno vestiti, vestiti per gente senza pelliccia. E lei ha una forma come… — Disegnò con le mani nell’aria la pienezza del suo petto. (Bianco, tutto bianco, e grande, strano.) — E poi, c’è di nuovo un sacco di gente che va e viene. Lei esce con un altro uomo, e vanno nella camera da letto di lui e si amano. Ma non è amore: lui non le piace nemmeno, e lui è arrabbiato per questo, e forse anche per qualcos’altro. Poi lei se ne va e ritrova il primo uomo, ma lui sta per andarsene da qualche parte e non vuole parlarle. Lei piange. Lui se ne va. Lei va nel posto dove la gente mangia, ed è molto infelice. Poi lui entra e va a sedersi vicino a lei, ma non ci sono dei mobili normali: hanno tutti le gambe. Lei fa finta di non essere felice di vederlo e continua a mangiare. Lui sa che fa finta, e dice qualcosa, e si guardano e dicono qualcosa a proposito di andare da qualche parte. Poi finisce e non so dove sono andati.
Sagot gli prese il viso fra le mani e Thorn era così perso che la lasciò fare. Dopo un po’ avvicinò la faccia a quella dell’allievo e gli lavò gli occhi con la lingua; questo, anche se Sagot era vecchia, lo fece sentire strano e amato.
— È quello che dovrei vedere?
Lei lo lasciò andare. — Vai a casa. Chiamo Ogot.
— Cosa dovrei vedere. È finita?
— Non lo so. Vai a casa.
12
Ellud camminò su e giù, e gettò in alto le braccia. — Non posso mettere a tacere la cosa!
— Non devi farlo. — Duun era seduto. — Lo porto questo pomeriggio. Voglio l’elicottero sul tetto e l’aereo a Trusa, senza dovere aspettare. Prendine uno fuori servizio. Lo piloterò io.
— Dei, il tuo brevetto è scaduto. Non posso permetterlo. Al giorno d’oggi gli aerei si pilotano con i computer. Ti procurerò un pilota. — Ellud ci provò, ma gli andò male.
— Va bene. Fra un’ora. Si muoveranno un minuto dopo che sarai decollato dal tetto; avrò i consiglieri alla porta.
— Sorveglia Shbit, basta questo. Te lo riporterò.
— La Corporazione non lo prenderà!
— Speri di sì o speri di no?
Ellud rimase fermo, con la bocca aperta, e Duun uscì.
Thorn camminava in fretta. In un fagotto, sottobraccio, aveva un cambio d’abiti, per sé e per Duun, e il mantello grigio di Duun avvolto attorno ad articoli da bagno e legato con una corda; indossava abiti invernali nuovi: una giacca imbottita, pantaloni larghi e stivali imbottiti; Duun, che camminava in direzione dell’ascensore al suo fianco, era vestito allo stesso modo.
— Dove stiamo andando, Duun? — Era per metà una protesta e per metà una domanda, e la faceva per la terza volta. (Ho infranto qualche regola, ho fatto arrabbiare Duun?) Ma non riusciva a leggere dentro a Duun in quel momento, a parte il fatto che c’erano dei segreti, e Duun aveva una gran fretta di portarlo fuori. (Fuori?) Non si era più messo pantaloni e giacca dai tempi dei rigidi inverni di Sheon. E non aveva mai indossato stivali. Era solo l’inizio dell’autunno.
(Sa quello che ho detto a Sagot. Ho fatto qualcosa di sbagliato! Stiamo scappando ancora, come da Sheon. Ci stanno dando la caccia, uomini con fucili… Ma è assurdo. Non lo farebbero. Non ho parlato con nessuno con cui non dovessi. Non ho fatto niente…)
(Davvero?)
La porta dell’ascensore si aprì. Duun entrò per secondo e inserì la tessera per farlo funzionare. L’ascensore sfrecciò verso l’alto, attraverso tutti i piani fra loro e il tetto.
Le porte si aprirono nella cupola. Dietro le finestre c’era il vero cielo, delle nuvole grìgie e un elicottero con le pale che giravano. C’erano delle guardie ad aspettarli; aprirono la porta, lasciando entrare un vento gelido. — Tieni giù la testa! — gli gridò Duun, e si mise a correre, abbassandosi quando fu vicino all’elicottero. Thorn lo seguì di corsa, con il vento delle eliche che gli sferzava la faccia. Stette basso finché non ebbe raggiunto l’elicottero, e salì a bordo come Duun, il più in fretta possibile; si buttò su una poltrona e cominciò ad allacciarsi le cinture. (Come col simulatore. Ma questo è un elicottero vero.)
Il motore salì di giri, e l’elicottero si alzò quasi con rabbia. Tutto roteò vertiginosamente: le cime dei grattacieli di Dsonan, i crepacci profondi delle linee ferroviarie e delle strade di manutenzione, e il porto lontano con la luce grigia che brillava sull’acqua, sotto una macchia di nuvole.