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— Perché mi hanno fatto, Duun?

Duun incontrò con sorpresa gli occhi di Thorn. C’era un’espressione di terribile divertimento sulla sua faccia: la bocca, dalla parte ferita, era tesa. — È questa la tua domanda? Risponderò.

— In questo luogo? — Il cuore di Thorn batteva forte. Era in preda al panico. — È da qui che vengo? Da qui?

— Ti mostrerò qualcosa. Siamo quasi arrivati.

(Non voglio vedere. Basta Duun. Duun, dimmelo, non farmi veder niente.)

La cabina rallentò, girò, si fermò con un sussulto. La porta si aprì su un’altra stanza, molto simile alla prima, tranne che per i rialzi vuoti e per gli schermi spenti. Thorn entrò, seguendo Duun. Il pavimento era nudo e freddo, come tutti i pavimenti della stazione. Come quelli di una nave o di un laboratorio. I piedi non lasciavano tracce. Non restava alcun segno del passaggio e nessun indizio dello scorrere del tempo. C’erano finestre. Duun toccò un bottone sulla parete, e le finestre s’illuminarono, mostrando i riflettori, i tralicci, le strane forme di Gatog. — Una vista impressionante, vero? — disse Duun. — Non noti delle discrepanze? — Duun andò a un pannello e schiacciò un bottone.

Si sentirono dei rumori, pieni d’interferenze gracchianti. — …stop… — disse una voce. Era una voce. -… voi… mondo…

(Dei. Dei. I nastri.)

Duun schiacciò un altro bottone. (Un bip. Una parola. Due. Parola…) Thorn raggiunse il quadro, e si chinò accanto a Duun. Il cuore gli batteva forte. — Viene da qui.

Duun spense l’audio. Il silenzio era qualcosa che stordiva. Duun andò verso l’illusione delle finestre, e Thorn lo seguì, sul pavimento senza tracce, e si fermò quando le finestre furono tutto ciò che vedeva. Duun alzò un braccio e indicò. — Questo è ciò che l’orecchio riceve. È puntato oltre il sistema solare, pesciolino. E ascolta. Cosa ci dice?

— Numeri. — Thorn guardò, e perse ogni senso dell’alto e del basso. Gli parve di roteare fra le luci, la forma di Gatog, le stelle più brillanti, e Duun: un’ombra avvolta nel mantello grigio, contro il vuoto senza fine. — Parla delle stelle, degli elementi… Smettila di giocare con me, Duun! Chi trasmette?

— Gente. — Duun si voltò verso di lui. — Gente come te, pesciolino.

La stanza era molto silenziosa. Non c’era mai stata e non c’era una voce simile, lì come in nessun altro luogo. Le finestre erano illusione, e il mondo.

— No, Duun.

— Tu sai chi, allora?

— Maledizione, Duun… non farmi questo!

— Volevi la tua risposta. C’è un’altra domanda. Vuoi farla?

— Cosa sono?

— Ah. — Duun si accostò alla finestra, eclissando una luce. — Sei un codice genetico. Sono così anch’io. Il tuo è diverso.

— Non sono shonun?

— Oh, dei, pesciolino, questo lo sai da anni. — Duun lo guardò: ombra contro la luce, grigio contro il vuoto. — Ma non sapevi cos’altro potevi essere. Il mondo conteneva tutte le tue possibilità. Io ti ho creato. Un codice in un ovulo; non era il primo tentativo. Ci sono stati migliaia di tentativi, finché i medici non hanno trovato il sistema giusto. È stato necessario sviluppare nuove tecnologie; e la maggior parte le abbiamo create noi. Ma tu eri un problema speciale. E tu… sei stato il successo. Ti hanno portato da me; non volevano. Avevano faticato tanto per averti. Mi credi, pesciolino? Ti sto dicendo la verità?

— Non lo so, Duun. — Thorn avrebbe voluto sedersi o andare da qualche parte. Ma non c’era nessun rifugio, su quel pavimento, né sotto le finestre.

— È la verità — disse Duun. — L’orecchio raccoglie quei messaggi. Forse c’è qualcosa nei sentieri del cervello; forse è come conoscere la propria faccia; forse entrambe le cose. Tu riproduci perfettamente i suoni dei nastri; nessun shonun riesce a pronunciare tutte quelle consonanti. Nessun shonun potrebbe leggere le facce sul nastro… tranne forse io e, qualche volta, Sagot. Tu mi hai insegnato. Mi hai insegnato i tuoi riflessi e i tuoi sentimenti più segreti; e quando ti abbiamo fornito il vocabolario che eravamo riusciti a ricostruire… forse sono i sentieri, lo sanno gli dei… tu hai cominciato a usarlo. È per questo che sei stato fatto.

— Per vivere qui? Per lavorare su questo?

— Non ti attira?

— Duun… riportami a casa. O dei, riportami a casa.

— Haras. Non crollarmi proprio adesso. Non sei venuto fin qui per frignare come un bambino.

Thorn andò alla finestra e le voltò le spalle. Adesso la faccia di Duun era illuminata, e la sua in ombra. — Non prendermi in giro. Non posso… — (Non posso, pesciolino?) Ci fu del silenzio.

— Le trasmissioni giungono a intervalli regolari — disse Duun con voce calma. — Per la maggior parte si ripetono. Cos’è che dicono?

— Te l’ho spiegato cosa dicono.

— M’incoraggi.

— Per cosa? — Thorn guardò la finestra: la vicinanza distruggeva l’illusione, la rendeva solo luce e buio privi di significato. Girò lo sguardo altrove. — È per questo che hanno paura di me?

— Ho preso un alieno. L’ho tenuto fra le braccia, l’ho nutrito, riscaldato… era piccolo, ma sarebbe cresciuto. L’ho portato su una montagna, e ho vissuto da solo con lui. Ho dormito sotto lo stesso tetto, l’ho fatto arrabbiare, l’ho incoraggiato e sollecitato e ho avuto incubi, pesciolino: ho sognato che si rivoltava contro di me. E delle volte, quando lo stringevo, mi veniva la pelle d’oca. Ecco le cose che ho fatto.

(Duun… oh dei, Duun…) Era al di là del dolore.

— … Sono stato più che onesto con lui. Gli ho dato tutto quello che avevo da dare. Ho fatto un passo dopo l’altro. L’ho reso shonun. Gli ho insegnato. Ho discusso con lui. Ho scoperto la sua mente, e pezzo dopo pezzo gli ho dato tutto ciò che sapevo insegnare. Ogni occasione. Sei cresciuto shonun. Nessuno sapeva cosa sarebbe venuto fuori. Quando dissi a Ellud che ti avrei reso hatani, rimase inorridito. Quando il mondo lo seppe… ci fu quasi il panico. Non importa: tu ne rimanesti all’oscuro. Quando ho detto a Ellud che ti avrei portato davanti alla Corporazione… be’, farti hatani era già grave; i loro giudizi erano limitati. Ma farti entrare nella Corporazione! È stato un vero e proprio terremoto. E tu hai vinto. Hai vinto Tangen. Hai fatto tutto, pesciolino.

— Mi ami, Duun?

(Affondo e ritirata). Duun sorrise. C’era tristezza in quel sorriso, e soddisfazione. — Questa è una domanda hatani.

— Fui istruito dal migliore.

(Secondo attacco). La bocca di Duun si strinse dal lato ferito. — Voglio raccontarti una storia, pesciolino.

— È una bella storia?

— È la storia di come ho perso le dita. Te lo sei sempre chiesto, vero? Nessuno chiede ai propri parenti quelle cose che veramente vuole sapere… dopo che uno è cresciuto. E non si scoprono mai quali sono le domande giuste, fino a quando non sono troppo personali per farle.

— È stata colpa mia?

— Ah. Ho penetrato la tua guardia.

— Raccontami la storia, Duun.

— Eravamo agli inizi… Sono sicuro che Sagot ti ha raccontato quasi tutto: la Corporazione tanun ci portò nello spazio, il primo passo. La luna. Una stazione. Poi arrivarono le compagnie. Avevamo delle basi scientifiche, qua e là: hatani, ghota, tanun… di kosan non molte. Un sacco di gente comune impegnata a fare quello che fa la gente comune… soprattutto i soldi; o studiavano. Il mondo se la cavava abbastanza bene, a quei tempi. Poi apparve una nave. — La faccia di Duun si sollevò leggermente, indicando la finestra, le luci. — Quella là fuori.