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«Non si tratta di questo, Robert» si affrettò a rassicurarlo il preside. «Ma ci sembra che tu abbia qualche guaio personale, e il medico pensa che un po’ di tempo passato a casa ti farà bene. Saremo felicissimi di riaverti con noi l’anno prossimo. Se vuoi, ti daremo un programma particolareggiato del corso, in modo che l’insegnante dell’isola possa tenerti aggiornato. Se ti applicherai un po’ anche durante le vacanze, sono certo che tornando qui sarai in grado di frequentare tranquillamente la tua classe come se non ti fossi mai assentato. Va bene Robert? Oppure non ti fa piacere tornare a casa?»

«Oh, no! Sono felicissimo! Voglio dire che…» s’interruppe impacciato, cercando una frase adatta alla circostanza.

Il signor Raylance rise. «Va bene Bob, non ti preoccupare, ho capito benissimo quello che vuoi dire. Adesso vai pure a preparare i bagagli e saluta i tuoi compagni. Vedrò di trovarti un posto sull’aereo di domani. Mi dispiace che tu debba lasciarci. La squadra di hockey sentirà la tua mancanza! Comunque sono certo che tornerai in tempo per il campionato. Buona fortuna, Robert!»

Si strinsero la mano poi Bob, ancora sbalordito, tornò nella sua stanza a preparare le valigie. Non disse niente al Cacciatore. Non ce n’era bisogno.

Il signor Raylance riuscì a trovargli un posto sull’aereo, e il giorno seguente Bob prese l’autobus per Boston e salì sul quadrigetto in partenza a mezzogiorno per Seattle, dove cambiò aereo salendo sull’apparecchio per Honolulu.

Durante il volo la conversazione del ragazzo con il Cacciatore riguardò più che altro il viaggio. Solo quando furono sul Pacifico affrontarono nuovamente il loro problema, e la domanda di Bob venne fatta per pura curiosità perché il ragazzo non aveva mai pensato che il Cacciatore, una volta sul posto dove doveva svolgere le ricerche, potesse incontrare difficoltà superiori alle sue forze.

«Senti un po’» disse Bob, «come farai a ritrovare quel tuo amico? E quando l’avrai trovato come farai a farlo uscire senza far male al suo ospite?»

Per il Cacciatore fu un colpo. Impiegò cinque secondi buoni a chiedersi se per caso non avesse dimenticato in qualche posto quella parte di tessuto che solitamente gli serviva da cervello.

La sua preda doveva essersi nascosta in un essere umano come aveva fatto lui. Questo era normale. Di solito, quando bisognava trovare qualcuno che si era nascosto in un ospite, e che non era individuabile alla vista né al tocco, né all’olfatto o all’udito, si ricorreva a una serie di esami chimici, fisici e biologici con o senza la collaborazione dell’individuo che funzionava da ospite. Il Cacciatore era in grado di eseguire tutti questi esami, e in certi casi poteva farli talmente in fretta che gli bastava sfiorare un organismo sospetto per sapere se conteneva qualcuno della sua razza. Bob gli aveva detto che sull’isola c’erano circa centosessanta esseri umani. Sarebbero bastati alcuni giorni per fare gli esami necessari. Ma lui non poteva assolutamente fare quegli esami!

Tutto il suo equipaggiamento e l’attrezzatura necessaria erano andati persi con l’astronave. Anche ammesso, cosa del tutto improbabile, che potesse ritrovare lo scafo, era una pazzia sperare che gli strumenti e i vari recipienti che contenevano le sostanze chimiche apposite fossero ancora intatti dopo il naufragio e i cinque mesi passati nell’acqua salata.

Doveva contare unicamente su se stesso, come non era mai capitato a nessun poliziotto prima. Isolato senza speranza dai laboratori scientifici del suo mondo, e nell’impossibilità di ricevere un qualunque aiuto dalla sua gente. Loro non sapevano nemmeno dove fosse finito, e la Via Lattea possedeva un centinaio di miliardi di soli…

Ricordò la faccenda dell’ago e del pagliaio. Un pagliaio che aveva assunto improvvisamente proporzioni inimmaginabili! La domanda di Bob restò senza risposta.

7

Il grande aereo li portò da Seattle a Honolulu, e da lì ad Apia. Da Apia un apparecchio più piccolo coprì la distanza fino a Papeete e qui, venticinque ore dopo la partenza da Boston, Bob indicò sotto di loro, nel porto, il mercantile che faceva il giro delle isole e sul quale avrebbero compiuto l’ultima parte del viaggio. L’alto marinaio dalla pelle scura che vide Bob salire a bordo, guardò con un sospiro le scalette di corda che pendevano a intervalli regolari dal passaggio che univa la poppa alla prua, per permettere di scendere sul ponte di carico e alla sala macchine. Sapeva per esperienza che era impossibile tenere il ragazzo lontano dalle scalette e dalle macchine, e anticipò con terrore il momento in cui avrebbe dovuto consegnare al signor Kinnaird un mucchietto di ossa fratturate e di carne coperta di lividi.

«Salve, signor Teroa!» gridò Bob appena messo piede sul ponte. «Ce la farete a sopportarmi per un giorno e mezzo?»

Il marinaio sorrise. «Penso di sì, del resto ho scoperto che non sei il guaio peggiore che mi possa capitare» rispose, e Bob lo fissò sgranando gli occhi.

«Volete dire che qualcuno è riuscito a fare peggio di me?» chiese, usando quel miscuglio di dialetto francese e polinesiano in uso presso gli indigeni. «Dovete farmi conoscere quel genio!»

«Lo conosci già. Anzi, li conosci. Sono il mio Charlie e il giovane Hay. Un paio di mesi fa si sono imbarcati a mia insaputa e si sono tenuti fuori vista finché non è stato troppo tardi per rispedirli a terra. Ho avuto il mio daffare a giustificare la loro presenza a bordo!»

«Ma che cosa ci trovavano di interessante nel viaggio? Chissà quante volte l’hanno fatto!»

«Non si trattava del viaggio in sé. Charlie si era messo in mente di dimostrarmi che poteva essere utile a bordo, e Norman Hay voleva visitare il Museo Marino di Papeete senza avere intorno vecchi barbagianni che gli dicessero che cosa doveva guardare di più. Ti assicuro che me ne hanno dati di dispiaceri per tutto il tempo che sono stati a bordo!»

«Non sapevo che Norman fosse un appassionato di storia naturale» commentò Bob. «Secondo me c’è sotto dell’altro. Vedrò di scoprirlo.»

«A proposito, non ti aspettavo così presto. Cos’è, ti hanno cacciato da scuola?» L’insinuazione, accompagnata però da un sorriso cordiale, non suonò affatto offensiva.

Bob rise. Non si era preso il disturbo di inventare una spiegazione piena di particolari, ma gli pareva che dichiarando di non capire nemmeno lui la decisione del medico della scuola non avrebbe avuto bisogno di fornire spiegazioni.

«Il dottore ha detto che mi avrebbe fatto bene stare a casa per un po’» disse. «Non mi ha spiegato il perché. A me non pare di essere malato.» E per cambiare argomento chiese: «Charlie ha poi avuto quel lavoro che voleva?»

«Senti, tu non andare a dirglielo» rispose il marinaio, «però devo ammettere che a bordo ci sa fare, quel rompipalle. L’ho tenuto sott’occhio tutto il tempo, e ho visto che è in gamba. Però adesso non ti mettere in testa di ottenere anche tu un imbarco!» concluse Teroa, e con una manata amichevole spinse il ragazzo lungo il passaggio che portava alle cabine di fortuna.

Nel frattempo il Cacciatore, lavorando di meningi, era giunto a tracciare un giudizio niente affatto lusinghiero sulla propria intelligenza. Ma riconoscere di essere stato stupido non risolveva niente. Più opportuno era invece accumulare dati sull’isola in modo da averne un quadro esatto. Il suo ospite era il più accreditato per fornirgli le informazioni. Approfittando di un momento in cui Bob, risalito sul ponte, stava fissando la limpida distesa azzurra, formulò la sua richiesta.

Dovresti dirmi di più sull’isola, cominciò. Mi interessa conoscere la sua forma, le sue dimensioni e sapere dove abita la gente. All’inizio, il nostro lavoro sarà di ricostruzione, più che di ricerca. Quando saprò tutto sul posto in cui dovrò agire, potrò coordinare meglio i nostri movimenti.