Dopo breve discussione venne accettata la seconda proposta, e i cinque ragazzi risalirono in barca. L’ultimo fu Norman, che si era fermato a prendere da un cespuglio un secchio tutto acciaccato. «Lo adoperavo per mettere acqua nella pozza quando mi pareva che il livello fosse troppo basso» spiegò. «Adesso gli troveremo qualche altro uso.» Mise il secchio a poppa, montò a sua volta, e con una spinta allontanò la barca dall’isolotto.
Per un’ora circa girarono su e giù all’interno della scogliera, sbarcando ogni tanto sulle rocce più grosse e servendosi di ramponi per tenersi lontani dagli scogli più pericolosi. Poi raggiunsero uno degli isolotti più grandi, sul quale crescevano sei o sette palme. Sbarcarono lì e tirarono la barca in secco.
Il Cacciatore era alquanto infastidito per la mancanza di scoperte interessanti, almeno fino a quel momento, dato che l’idea di esplorare da vicino la scogliera in cerca di tracce era stata sua. Ora si trovavano a circa un chilometro e mezzo dall’estremo limite nord della spiaggia, e questo significava che circa un quarto dello spazio entro il quale lui aveva sperato di trovare qualche segno del fuggitivo era già stato coperto, e senza risultati. Però c’era ancora parecchio da vedere e il Cacciatore usò gli occhi di Bob nel migliore dei modi. Su un lato dell’isolotto le onde si frangevano rumorose, l’altro era lambito dall’acqua relativamente calma della baia. A un centinaio di metri si vedeva un serbatoio. Accanto al serbatoio c’era la chiatta per la raccolta dei rifiuti, e gli uomini dell’esiguo equipaggio si muovevano agilmente sul passaggio che sovrastava il tetto di vetro del cassone. Dietro, a circa quattro chilometri, c’erano le case dei bianchi che abitavano l’isola, appena visibili.
Il Cacciatore concentrò l’attenzione sull’isolotto. La sua conformazione era simile a quella dell’altra roccia emersa dove c’era l’acquario di Norman, con eguali rive frastagliate e a picco, nelle quali si aprivano piccole grotte tappezzate di corallo dove l’acqua spariva gorgogliando per spruzzare poi alta sino a lambire le facce dei ragazzi quando un’ondata si schiantava sulla barriera. In alcune insenature dall’imboccatura molto stretta l’acqua era quasi immobile per quanto si alzasse e si abbassasse continuamente seguendo l’altalenare delle onde. Fu nella più grande di queste insenature che i ragazzi, sempre alla ricerca di tesori marini, compirono le loro ricerche. Del resto, nelle altre sarebbe stato impossibile per la stessa natura turbolenta e irriflessiva tipica dei giovanissimi. Rice fu il primo a scendere dalla barca, e mentre gli altri pensavano a issare l’imbarcazione sulla riva, lui corse all’insenatura e, buttandosi per terra, guardò in giù nell’acqua. Quando arrivarono i compagni lui era già pronto a tuffarsi.
«Quello è mio!» gridò mentre gli altri quattro sbirciavano sul fondo dell’insenatura per vedere che cosa aveva attirato l’attenzione dell’amico, e prima che qualcuno avesse visto qualcosa lui era già in acqua. Rimase sotto parecchio, poi ricomparve per chiedere una delle pertiche che avevano caricato sulla barca.
«Non riesco a liberarlo» disse. «Pare piantato sul fondo.»
«Che cos’è?» chiese uno dei ragazzi.
«Non lo so ancora. Certo che non ho mai visto niente di simile. È per questo che non ci voglio rinunciare!» Prese il palo teso da Colby e tornò sott’acqua. L’oggetto che aveva attirato il suo interesse si trovava a una profondità di un metro e mezzo, e lì nell’insenatura l’acqua arrivava da un metro e trenta a un metro e ottanta a seconda dell’importanza delle onde attorno.
Kenny Rice riaffiorò parecchie volte per respirare, e alla fine Bob si tuffò per aiutarlo. Bob aveva un vantaggio sui compagni: grazie alla capacità del Cacciatore che poteva modificare la curvatura delle sue retine, intervenendo con pellicole del proprio corpo, riusciva a vedere sott’acqua molto meglio degli altri. Il ragazzo distinse subito la forma dell’oggetto sul quale si accaniva Rice, ma non lo riconobbe. Era una specie di mezzo cilindro cavo, in metallo, del diametro di nove o dieci centimetri e spesso un centimetro e mezzo, con una piastra dello stesso materiale stesa sulla parte piatta, per metà dell’area. Stava appeso come un cappello a un ramo di corallo, sospeso a qualche centimetro dal fondo. L’altra estremità dell’oggetto era infilata nel fango come un cuneo. Rice stava cercando di staccarlo dal corallo, aiutandosi con la pertica. Dopo alcuni minuti di sforzi inutili, i due amici si fermarono, risalirono per respirare e concertarono un nuovo sistema d’attacco. Bob sarebbe andato sul fondo per tentare di smuovere l’oggetto di dietro con il bastone. Rice, al suo segnale, avrebbe puntato un piede contro la parete dell’insenatura (i ragazzi calzavano le scarpe perché solo un pazzo sarebbe entrato a piedi nudi in un’insenatura tappezzata di rocce corallifere), e avrebbe tirato forte in avanti per staccare lo strano cilindro dal pesante ramo di corallo che lo teneva agganciato. Il primo tentativo fallì. Bob non aveva impugnato bene la pertica che gli scivolò dalle mani. Il secondo invece riuscì anche troppo bene. Il pezzo di metallo si staccò di colpo, e rotolò via finendo in acque più profonde. Subito Bob risalì per prendere fiato. Si riempì i polmoni e si voltò per parlare a Rice, ma non vide la testa rossa del ragazzo. Per un attimo pensò che l’amico fosse già emerso e tornato sotto, all’inseguimento del suo tesoro, ma nell’attimo in cui il livello dell’acqua si abbassò, la testa rossa apparve.
«Aiuto! Il mio piede…» gridò Rice, e venne interrotto dal nuovo aumento dell’acqua. Ma ormai la situazione era chiara per tutti. Bob tornò subito giù, appoggiò saldamente i piedi sul fondo e cercò di sollevare il pesante pezzo di corallo che, staccatosi dalla parete sotto la pressione del cilindro, era caduto imprigionando un piede di Rice. Bob non riuscì a smuovere il frammento e risalì rapido a immagazzinare aria.
«Non parlare! Prendi fiato!» gridò Malmstrom. Superfluo. Rice, la cui testa era riaffiorata col calare dell’acqua, non pensava ad altro che a respirare. Bob si guardò attorno alla ricerca del bastone che era scomparso. Lo vide galleggiare a qualche metro di distanza e andò a riprenderlo. Colby era corso via in direzione della barca, senza dir niente. Tornò nel momento in cui Bob stava per rituffarsi. Aveva in mano il secchio che Norman aveva portato via dall’isolotto. Norman e Malmstrom guardarono lui e il secchio, sbalorditi, senza capire e Colby non perse tempo a dare spiegazioni. Si buttò a pancia in giù sulla riva dell’insenatura, si sporse il più possibile verso l’intrappolato Rice, e appena il livello dell’acqua tornò ad abbassarsi fissò il secchio sulla testa dell’amico pronunciando le sue prime parole della giornata.
«Tienilo così.»
Rice capì immediatamente, e quando l’acqua riprese a salire si trovò con la faccia chiusa in un secchio pieno d’aria.
«Hai bisogno d’aiuto?» chiese Norman, ansioso.
«Penso di farcela, questa volta» rispose Bob. «Prima mi preoccupavo per l’aria, ma adesso Kenny è a posto. Mi riposo solo un momento per respirare più a fondo.» Restò aggrappato alla riva mentre Norman gridava incoraggiamenti al compagno quando la testa di latta restava fuori dall’acqua. Durante la pausa Bob trovò il tempo di mormorare al Cacciatore: «Ecco perché non mi andava l’idea di venire fin qui da solo!» Poi, afferrato saldamente il bastone, si immerse di nuovo.
Riuscì a trovare un punto migliore per fare leva, e impiegò tutta la sua forza. Il pezzo di corallo cominciava a sollevarsi, e il ragazzo sentiva che ce l’avrebbe fatta, ma a un certo punto il bastone si ruppe e una delle estremità scheggiate lo ferì allo stomaco. Per una volta tanto il Cacciatore non protestò. Quella era decisamente una ferita sul campo di battaglia, perciò l’extraterrestre provvide a chiudere i profondi graffi senza commenti. Bob risalì alla superficie.