«Forse sarà meglio che scendiate tutti. Stavo per riuscirci ma il bastone si è rotto. Prendete altre pertiche, o i remi, e tuffatevi. La marea sta salendo e il secchio funziona finché l’acqua lo copre solo per pochi secondi. Su, venite.» In un attimo i quattro ragazzi, armati di remi e bastoni, furono in acqua attorno all’amico: Bob sul fondo a sistemare un’estremità delle leve improvvisate, gli altri tenendo saldamente i pezzi di legno, pronti a premere in giù appena lui avesse dato il segnale. Nessuno sapeva che Bob ci vedeva meglio di loro sott’acqua, ma avevano accettato che fosse lui a comandare perché quello non era il momento più adatto per mettersi a discutere. L’impresa costò un remo, ma finalmente Kenny fu liberato, e con l’aiuto degli amici salì all’asciutto, dove si sedette stringendosi il piede fra le mani mentre gli altri ciondolavano attorno.
Tenuto conto della sua normale abbronzatura, Kenny Rice era pallidissimo, e ci volle un bel po’ prima che il respiro e i battiti cardiaci gli tornassero normali. Gli altri quattro erano spaventati quasi quanto lui, e nessuno suggerì di immergersi di nuovo per ripescare il diabolico oggetto metallico. Fu Rice a parlarne, dopo una decina di minuti, dicendo che era un peccato aver fatto tanto fatica per niente, e allora Bob si tuffò di nuovo, ma non riuscì a vedere il cilindro fra i coralli e le alghe del fondo. Dopo essersi trovato a faccia a faccia con un riccio di mare, smise di frugare sotto tutto quello che vedeva e tornò definitivamente alla superficie. Del lavoro di tutto il pomeriggio a Rice rimase così soltanto la paura, ma era un genere di souvenir che il ragazzo non ci teneva a mostrare ai suoi genitori.
Erano le quattro e mezzo, e restava ancora parecchio tempo prima di cena, ma chissà perché la prospettiva di continuare le esplorazioni nella zona della scogliera non pareva più molto attraente. Dopo una brevissima discussione i ragazzi decisero di andare ai dock.
«Quello dovrebbe essere un posto tranquillo e sicuro, dato che la nave arriverà soltanto fra una settimana» commentò innocentemente Norman Hay. Nessuno parlò, ma probabilmente pensavano tutti la stessa cosa. Il Cacciatore sentì la frase, ma non le diede importanza: la sua mente era ancora completamente assorbita dal relitto visto e sentito, e che non era certo un pezzo della sua astronave.
12
La conversazione fra i cinque amici riprese coi toni consueti solo quando Norman disse qualcosa a proposito del suo acquario.
«Forse ai dock possiamo trovare qualche arnese che vada bene per far saltar via il cemento da uno dei buchi che ho tappato» disse.
«Ci vorrà qualcosa di eccezionale» osservò Malmstrom. «Tu hai usato il cemento subacqueo. È lo stesso col quale hanno costruito il dock, e guarda quello! Dopo tutto questo tempo non c’è ancora il segno nel punto in cui le navi toccano.»
«Le navi non vanno a urtare il dock, a meno che non sia per un errore di manovra» osservò Rice dal timone. «Comunque, ci servono degli attrezzi. Nessuno di noi ha in casa qualcosa che possa andar bene, questo è certo.»
«Che cosa useremo? Martelli o scalpelli?»
«Un martello serve a poco sott’acqua. Ci vorrebbe una leva solida con una bella punta. Qualcuno sa dove trovarla?» Nessuno rispose, e dopo una breve pausa Norman riprese: «Chiederemo a quelli del dock, e se loro non ne hanno ci rivolgeremo agli uomini dell’impresa Costruzioni.»
«Se riuscissimo a procurarci un equipaggiamento subacqueo si potrebbe lavorare più in fretta» disse Rice.
«Le uniche attrezzature del genere che esistano sull’isola servono a quelli dei serbatoi. Non credo che ce ne presterebbero volentieri una» disse Bob. «E poi andrebbe bene soltanto a Kenny, che è il più alto di tutti.»
«E con questo?» disse Kenneth Malmstrom.
«Tutta la fatica dovresti farla tu. Ad ogni modo sono sicuro che non ce la presteranno.»
«Perché non ci facciamo da soli una tuta e un casco?»
«Perché sono almeno quattro o cinque anni che ne parliamo, ma se vogliamo andare sott’acqua dobbiamo ancora trattenere il respiro.» L’osservazione venne da Colby, e come al solito nessuno trovò niente da ribattere.
Dopo un breve silenzio Rice pose una nuova questione: «Che cosa adopereremo per impedire ai pesci di andarsene? Bob ha parlato di rete metallica, ma dove la prendiamo?»
«Non lo so proprio. Se sull’isola ne esiste sarà nei magazzini. Se ce n’è vedrò di procurarmene un pezzo, e se no potremmo prendere del semplice filo di ferro e costruircela da soli.»
Poco dopo i ragazzi, assicurata la barca agli appositi anelli, salivano sul dock da una delle scalette. Bob e Rice si occuparono della barca e poi raggiunsero gli altri, Rice un po’ più lentamente per via del piede indolenzito. L’immensa costruzione era in cemento armato e parti metalliche. Il particolare più caratteristico consisteva nei quattro giganteschi serbatoi cilindrici accanto ai quali le pompe e i vari meccanismi di controllo sembravano giocattoli. L’unica attrezzatura antincendio era costituita da condutture ad alta pressione per scaricare in mare l’eventuale carburante incendiato. Attorno ai serbatoi sorgevano baracche di lamiera che servivano da magazzini, e all’estremità opposta della massicciata, che andava dalla strada asfaltata alla spiaggia, sorgeva il complesso apparato per la distillazione del petrolio e della benzina dove veniva raffinato il combustibile necessario al consumo dell’isola.
Per il momento ai ragazzi interessavano solo i magazzini. Non speravano di trovare rete metallica, perché non sapevano proprio a cosa potesse servire sull’isola, ma non si sa mai. In fila indiana si avviarono alle baracche.
La loro marcia segnò una battuta d’arresto nel momento in cui aggiravano una delle baracche più piccole: un braccio sporse dalla porta, una mano afferrò Rice per il colletto della camicia e tirò dentro il ragazzo. Gli altri si fermarono di colpo, sorpresi. Poi sentirono la voce di Charles Teroa. Stava dicendo qualcosa a proposito di viaggio clandestino e di lavoro, e pareva alquanto soddisfatto. La conversazione fra Charles e Kenny durò qualche minuto, ma la voce di Kenny non arrivò alle orecchie degli amici. Alla fine Rice tornò fuori con aria trasognata, seguito da Charles tutto sorridente. Il polinesiano strizzò l’occhio a Bob, poi chiese: «Si può sapere che cosa ci fate, voi, qua attorno?»
«Possiamo fare la stessa domanda a te» ribatté Norman. «Se non mi sbaglio nemmeno tu lavori qui.»
«Io però sono d’aiuto» rispose Teroa. «Voi invece penso che stiate cercando qualcosa.»
«Niente comunque di cui qualcuno sentirebbe la mancanza» disse Norman. E stava per aggiungere qualcosa quando si sentì una nuova voce.
«Come puoi essere sicuro che potremmo farne a meno?» disse la voce. I ragazzi si girarono di scatto. Dietro di loro c’era il padre di Bob. «Siamo sempre felici di poter fare un favore» riprese il signor Kinnaird, «ma ci piace sapere che fine fa la nostra roba. Sentiamo un po’, qual era lo scopo della vostra visita, oggi?»
Norman non si fece pregare per rispondere, e spiegò che gli serviva un pezzo di rete metallica, o un po’ di fil di ferro, e che aveva tutte le intenzioni di chiederlo regolarmente, riservandosi solo di dare prima un’occhiata per poter indicare poi con precisione quello che andava bene per lui.
Il signor Kinnaird approvò con aria comprensiva. «Forse per la leva dovrete rivolgervi su al nuovo serbatoio» disse. «Ma per la rete metallica penso che qualcosa si possa fare. Andiamo un po’ a vedere.»
Tutti, compreso Teroa, seguirono il signor Kinnaird, e durante la strada Norman spiegò la faccenda dell’acquario e il modo in cui avevano scoperto perché i pesci morivano. Il signor Kinnaird ascoltò attentamente ma lanciò un’occhiata a Bob, che il ragazzo però non raccolse. La conversazione gli ricordò invece il libro del dottor Seever, e ne accennò a Norman quando questi smise di parlare per tirare il fiato.