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La sua occupazione presso un’agenzia di pubblicità la porta a volare spesso; ormai parla il choomwot come una del luogo.

Sita ha insegnato a molti amici, di cui mi vanto di far parte, il suo sistema di viaggio tra gli altri piani e gli aeroplani. E la tecnica, il Metodo, si è diffuso al di là di Cincinnati. Inoltre, può darsi che sia stato scoperto da altri, perché ormai lo pratica un gran numero di persone, anche se non sempre volutamente. Le si incontra un po’ dappertutto.

Mentre ero presso gli asonu ho conosciuto un tizio del piano canadesiano, che più o meno è come il nostro, ma in gran parte è tutto Toronto. Mi ha detto che la loro tecnica di viaggio richiede solo di inghiottire due sottaceti di aneto, stringere la cintura, sedere a schiena ritta, su una sedia dura e senza toccare la spalliera, poi respirare dieci volte al minuto per dieci minuti. È una tecnica invidiabile per la sua facilità, rispetto alla nostra. Invece noi (le persone del piano dove vivo quando non vado altrove) per cambiare il piano di volo dobbiamo essere in un aeroporto, a quanto pare.

L’Agenzia Interplanaria ha accertato da tempo che una particolare combinazione di scomodità, tensione, indigestione e noia è il principale fattore che agevola il viaggio tra i piani. Ma la maggior parte delle persone che abitano negli altri piani d’esistenza non è costretta a soffrire come noi.

I rapporti e le descrizioni che seguono, e che riguardano altri piani, mi sono stati forniti da amici, oppure sono tratti da appunti presi nelle mie escursioni, o trovati in biblioteche di vari tipi. Mi auguro che possano spingere il lettore a provare il volo interplanario; se così non dovesse essere, potranno sempre servire a fargli passare un’ora di attesa in un aeroporto.

IL SEMOLINO DI ISLAC

Bisogna ammettere che il metodo inventato da Sita Dulip non è del tutto attendibile. A volte vi ritrovate su un piano diverso da quello dove intendevate recarvi.

Se quando viaggiate vi ricordate di portare con voi una copia della Guida Planaria Tascabile di Rornan, potete informarvi sul luogo d’arrivo, dopo esservi giunti, anche se lo stesso Rornan non è del tutto attendibile. Ma l’Enciclopedia Planaria in 44 volumi non è facile a trasportarsi e, del resto, soltanto chi è morto è immancabilmente attendibile.

Ero arrivata su Islac senza averne intenzione, quando avevo ancora scarsa esperienza, prima di avere preso l’abitudine di infilare in valigia il Roman.

L’Hotel Interplanario del luogo aveva la sua copia dell’Enciclopedia, ma mi fu riferito che era dal legatore, perché gli orsi avevano mangiato la colla della legatura e i libri si erano sfasciati.

Sul momento pensai che gli orsi di Islac dovevano essere ben strani, ma non volevo fare domande. Mi limitai a controllare attentamente il corridoio e la mia stanza, nel caso ci fosse un orso in agguato. Era un albergo molto bello e i clienti erano simpatici, così decisi di accettare quanto mi era accaduto e di passare su Islac un giorno o due.

Avevo cominciato a guardare i volumi della libreria della mia stanza e a provare il leggomat incorporato, e non pensavo più agli orsi, quando vidi sgattaiolare via un animaletto, che finì dietro il mobile. Andai a spostare la libreria e diedi un’occhiata allo sgattaiolatore. Era scuro e peloso, ma aveva una coda lunga e sottile, che mi ricordava il fil di ferro. Misurava quindici o venti centimetri, più la coda.

Non mi sarebbe piaciuto condividere la camera con quel tipo di ospiti, ma, ancor meno mi sarebbe piaciuto andare a lamentarmi con un estraneo — per lamentarsi con piena soddisfazione bisogna rivolgersi alle persone che conosciamo di più — perciò spostai la pesante libreria in modo che coprisse il buco della parete dove si era rifugiato l’animaletto e scesi per la cena.

L’hotel aveva una cucina di tipo familiare e tutti gli ospiti sedevano alla stessa lunga tavolata. Era un gruppo allegro, venuto da piani diversi. Col translatomat si poteva facilmente conversare a due a due, anche se le conversazioni dei vicini finivano per sovraccaricare il circuito.

La mia vicina di sinistra, una rosea signora di un piano chiamato Ahssì, mi raccontò che lei e il marito venivano spesso a Islac. Allora le domandai se sapeva qualcosa sulla storia degli orsi.

«Certo», mi rispose, con un sorriso. «Non sono pericolosi. Ma che piccole pesti! Rovinano i libri, leccano le buste e s’infilano sotto le coperte!»

«S’infilano nel letto?» domandai.

«Sì, sì. Erano animali da compagnia, capisce?»

Il marito si piegò per parlarmi da dietro la moglie. Era un bel signore, dalla faccia rosea. «Orsacchiotti», mi disse nella mia lingua, sorridendo. «Peluche.»

«Orsacchiotti di peluche?» chiesi io.

«Sì, sì», rispose, ma a quel punto dovette ricorrere alla sua lingua. «Gli orsacchiotti sono piccoli animali da compagnia per i bambini, vero?»

«Sì, ma non sono vivi.»

Mi guardò allarmato. «Animali morti?»

«No, animali di pezza, pieni di paglia, giochi…»

«Giusto, giusto. Giochi, animali da compagnia», confermò, con un sorriso e un cenno d’assenso.

Volle parlarmi della sua visita al mio piano; era stato a San Francisco, che gli era molto piaciuta; finimmo per parlare di terremoti anziché di orsacchiotti di peluche. Si era trovato in mezzo a un terremoto di grado 5,6: «Esperienza affascinante, molto gradita», lui e la moglie risero con piacere al ricordo. Davvero una coppia simpatica, con una disposizione ottimistica verso il mondo.

Al ritorno nella mia stanza spinsi la valigia contro il fianco della libreria, per bloccare meglio il foro nel muro, e andai a dormire augurandomi che gli orsi non avessero un’uscita di servizio. Nessuna creatura s’infilò nel mio letto, quella notte, ma mi svegliai molto presto perché subivo ancora gli effetti del cambiamento del fuso orario dopo il volo da Londra a Chicago, dove l’aereo che doveva portarmi a casa era in ritardo e mi ero potuta permettere la vacanza. La mattina era incantevole, la giornata si annunciava calda, il sole era appena sorto.

Mi alzai e uscii a prendere aria e visitare la città di Slas sul piano di Islac.

Sarebbe potuta passare per una qualsiasi grande città del mio piano di esistenza, niente di straordinario, a parte lo stile architettonico caotico/confusionale — molto più spinto che da noi — e le dimensioni degli edifici. Voglio dire che noi mettiamo nel centro della città, lungo le strade più belle, gli edifici grossi e importanti, e quelli piccoli e umili in periferia, in qualche quartiere povero o nelle bidonville.

In quel quartiere residenziale di Slas, le case grandi erano mescolate alle piccine e alcune di queste erano poco più che capanne.

Quando mi allontanai nell’altra direzione, verso il centro, trovai la stessa anarchia nella scala degli edifici commerciali. Una massiccia costruzione di quattro piani, con la facciata di granito, giganteggiava su un edificio di dieci piani, largo tre metri e con soffitti alti non più di un metro e mezzo: un grattacielo per le bambole. A quell’ora, però, cominciavano a esserci molti islai per strada e le persone mi sorpresero ancor più degli edifici.

Erano straordinariamente diversi come taglia, colore e forma. Una donna che doveva essere alta due metri e mezzo passò davanti a me, spazzando la strada: era la spazzina e ripuliva il marciapiede dai rifiuti, con grazia ed efficienza. Portava anche un piumino per spolverare o qualche attrezzo del genere: se l’era infilato nella cintura, dietro la schiena, come le penne di uno struzzo.

Poi mi passò davanti un uomo d’affari — collegato alla rete dei computer attraverso un auricolare, un piccolo altoparlante e il video nella lente sinistra degli occhiali — il quale continuava a dare ordini mentre studiava i rapporti di mercato. Mi arrivava alla cintola o poco più.