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Arrivò anche la direttrice, una donna corpulenta dai capelli rossi e dalla pelle bianca, che non indossava alcun vestito, solo gli stivali. I due inservienti portavano gonnellini e stivaloni. La cameriera che passava l’aspirapolvere era invece una palla di gonne, calzoni, giacche, sciarpe e veli. A quanto pareva, quelli più alti di rango erano gli uñiati, che indossavano meno vestiti. Ma in quel momento non avevo interesse per i loro usi e costumi. Fissai con ira la direttrice. Lei mi guardò con aria falsamente servile e mi offerse il tipo di scusa-accordo minaccioso caratteristico di quel tipo di persone, che significa: «Prendi quello che ti offro, ti conviene non fare storie».

Sarei stata loro ospite all’ostello o in qualunque altro albergo da me scelto su Uni, trasporto gratuito a mezzo treno fino alla pittoresca cittadina di J!ma, biglietti omaggio per i musei, il circo, la fabbrica di insaccati, ogni sorta di agevolazioni, che lei elencò meccanicamente, finché non la interruppi.

«No, grazie, ne ho avuto abbastanza di Uni e me ne vado immediatamente. Devo prendere il mio volo per Mem-fish.»

«E come fa?» domandò lei, con un sorriso sgradevole.

A quella semplice domanda mi sentii correre lungo la schiena un brivido di terrore, come se fossi finita nell’acqua di scioglimento del mio iceberg. Il mio corpo si paralizzò, respiro e pensiero si bloccarono.

Sapevo come ero arrivata laggiù, nel modo con cui avevo raggiunto gli altri piani: aspettando nell’aeroporto, naturalmente.

Ma l’aeroporto era sul mio piano, non su quello di Uni. E da laggiù non sapevo come fare ritorno. Rimasi impietrita, come si usa dire.

Fortunatamente la direttrice era ansiosa di liberarsi di me. Quel che il translatomat aveva tradotto E come fa? era una frase convenzionale, del genere di Come mi dispiace, che le labbra carnose ma serrate della direttrice avevano lasciato incompiuta. La codardia, che si era fatta subito viva al segnale sbagliato, aveva bloccato il mio cervello, cancellato tutta la mia memoria, proprio come basta la paura di scordarmi un nome per farmi immancabilmente dimenticare il nome della persona che devo presentare a un’altra.

«La sala d’attesa è da questa parte», mi disse la direttrice e mi riportò indietro, lungo l’atrio. I suoi lombi nudi si muovevano con un dondolio pesante e malevolo.

Naturalmente tutti gli hotel e locande dell’Agenzia Interplanaria hanno una sala d’attesa esattamente simile a quella di un aeroporto, con file di sedie di plastica imbullonate al pavimento e un’orribile tavola calda priva di sedili che è chiusa, ma che puzza di sego rancido. Un uomo dalle guance cascanti che ha il raffreddore e che te lo attacca siede accanto te, il tabellone delle partenze e degli arrivi previsti, che cambiano talmente in fretta che non sei mai sicuro se tra le migliaia di annunci hai trovato il tuo aeroplano, anche se quando trovi il numero del volo scopri che hanno cambiato il cancello d’imbarco, cosa che significa che dovresti essere in un altro corridoio, e la tua ansia presto sale a un livello operativo… ed eccoti di nuovo nell’aeroporto di Denver, seduta su una sedia di plastica imbullonata, accanto a un uomo grasso e catarroso che legge una rivista chiamata L’usuraio di successo, tra la puzza del grasso rancido, i gemiti disperati di un bambino di due anni, e la voce, enormemente amplificata, di una donna che, con l’occhio della mente, mi immagino grassa, bianca di pelle, con i capelli rossi, nuda, ma con gli stivali, la quale annuncia che il volo delle quarenti per Mem-fish è stato cancellato.

Ero lieta di essere tornata al mio piano. Non volevo più andare a est, adesso. Volevo andare a ovest. Trovai un volo per la bellissima, tranquilla, sana Los Engels e mi recai laggiù. Nell’hotel di quella città feci per prima cosa un lungo bagno, con l’acqua molto calda.

So che parecchia gente è morta di arresto cardiaco a causa dell’eccessiva temperatura del bagno. Ma accettai il rischio.

FINE