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Ero rimasta una settimana all’ostello (l’Agenzia Interplanaria, che esiste da parecchi kalpa, ha organizzato ostelli, locande, e anche alberghi di lusso in molte delle regioni più frequentate, e nello stesso tempo protegge dall’intrusione dei turisti le aree vulnerabili). Successivamente mi trasferii nella casa di una vedova che manteneva la famiglia prendendo a pensione un limitato numero di persone, tutte del luogo, me esclusa. La vedova, i due figli adolescenti, i tre pigionanti e io consumavamo colazione e pranzo insieme, e fu così che finii per appartenere a una famiglia locale. Erano certamente persone gentili e la signora Nannattula era un’ottima cuoca.

La lingua degli hennebet è notoriamente difficile, ma io riuscii a cavarmela con l’aiuto del translatomat fornito dall’Agenzia. In poco tempo mi parve di iniziare a conoscere i miei ospiti. Non erano diffidenti, in realtà; la loro timidezza era soprattutto una difesa della privacy.

Quando si resero conto che non ero invadente, persero tutta la loro rigidità; e io mi sgelai a mia volta rendendomi utile. Una volta convinta la signora Nannattula che intendevo realmente esserle d’aiuto in cucina, lei fu lieta di avere un apprendista cuoco.

Il signor Battannelle aveva bisogno di un ascoltatore; io ascoltai i suoi discorsi di politica (Hennebet è una democrazia socialista governata principalmente da comitati, in un modo che forse non sarà molto efficiente, ma che almeno non è disastroso). E io scambiavo informali lezioni di lingua con Tenngo e Annup, due ottimi adolescenti. Tenngo intendeva studiare da biologa e il fratello aveva il dono delle lingue. Il mio translatomat era utile, ma la maggior parte dell’hennebet che conosco l’ho imparato insegnando ad Annup l’inglese.

Con Tenngo e Annup non sentivo quasi mai il disorientamento in cui piombavo, di tanto in tanto, quando conversavo con gli adulti, ovvero l’impressione di non avere assolutamente idea delle cose di cui parlavano, l’impressione che all’improvviso s’era aperta un’immensa discontinuità nella comunicazione. Dapprima lo attribuii alla mia scarsa comprensione del linguaggio, ma c’era anche dell’altro. Si aprivano delle vere e proprie lacune. All’improvviso, gli hennebet erano dall’altra parte di un insuperabile crepaccio, del tutto fuori portata.

Questo succedeva con particolare frequenza quando parlavo con un’altra pensionante, la vecchia signora Tattava. Cominciavamo bene il discorso, parlando del tempo o delle ultime notizie o dei suoi lavori al piccolo punto, e allora, improvvisamente, ecco la discontinuità, nel bel mezzo di una frase: «Trovo che ricamare foglie sia comodo per riempire le aree di forma irregolare, ma dipingere a piccole foglie l’intero edificio è stato un lavorone. Credevo di non finire mai!»

«Che edificio era?» domandai io.

«L’hali tutuve», rispose, continuando tranquillamente a ricamare!

Non avevo mai udito, fino a quel momento, la parola tutuve. Il mio translatomat lo traduceva con «tempio, sacro recinto», ma non citava il termine hali. Così andai a cercare l’enciclopedia di Hennebet. L’hali, diceva, era una pratica che si riscontrava presso la popolazione della Penisola di Ebbo e che risaliva al millennio precedente; inoltre c’era una danza popolare chiamata kalihali.

La signora Tattava era ferma sulla scala con un’espressione rapita. La salutai. «Immagini che numero!» mi disse di rimando.

«Numero di cosa?» le chiesi, con cautela.

«I piedi!» rispose lei, sorridendo. «Uno dietro l’altro, uno dietro l’altro. Che danza! Che danza lunga!»

Dopo alcune di queste divagazioni chiesi alla signora Nannattula, prendendo il discorso molto alla larga, se la signora Tattava aveva qualche problema di memoria. La signora Nannattula, che tagliava la verdura per il tunun ma, rise e rispose: «Oh, è sempre un po’ fuori del mondo. Proprio così!»

Io dissi la solita banalità d’occasione: «Che peccato».

La padrona di casa mi guardò con aria leggermente perplessa, ma continuò lungo il proprio filo di pensieri, senza rinunciare al sorriso. «Dice che siamo sposate! Adoro parlare con lei. È un vero onore avere così tanta abba nella casa, non lo crede anche lei? Mi sento fortunatissima.»

Sapevo cos’era l’abba: un arbusto molto comune, un sempreverde; le bacche di abba - di gusto piccante che ricorda il ginepro — si usavano in alcuni piatti. Ce n’era un cespuglio nell’aia dietro la casa e in dispensa avevo visto un barattolo di bacche secche. Ma non mi pareva che la casa ne fosse piena.

Continuai a rimuginare sul «tempio hall» della signora Tattava. Non avevo mai visto alcun tempio su Hennebet, a parte la nicchia del soggiorno di casa Nannattula, dove la mia ospite teneva alcuni fiori, o steli di giunco e, ora che ci pensavo, anche un rametto di abba. Le domandai se la nicchia aveva un nome e lei mi rispose che era il tutuve.

Facendo appello al mio coraggio chiesi alla signora Tattava: «Dov’è l’hali tutuve?»

Per qualche momento, lei non mi rispose. «È molto distante, di questi tempi», mi disse infine, con uno sguardo lontano. Poi i suoi occhi si illuminarono un poco, quando li fissò nuovamente su di me.

«Lei c’è stata?»

«No.»

«È così difficile esserne certi», rispose lei. «Sa che io non dico più di non essere stata in qualche posto, perché spesso risulta che ci sono ora… o che ci siamo, dovrei dire, non è d’accordo? È stato bellissimo. Oh, quant’era lontano! E per tutto il tempo è sempre stato qui da noi, adesso!» Mi guardò con una tale allegria e un tale piacere che non potei fare a meno di sorridere e di sentirmi felice, anche se non avevo la minima idea di quel che intendesse dire.

In effetti cominciavo allora a notare che le persone della «mia» casa, e gli hennebet in generale, erano molto meno simili a me di quanto non avessi supposto. Era una questione di temperamento. Erano ben temperati. Erano di buona tempra. Non si trattava di una virtù, di un trionfo! etico; semplicemente, erano persone di buon carattere. Molto diverse da me.

Il signor Battannelle parlava di politica con gusto ed energia, con un vivace interesse per quei problemi, ma avevo sempre, l’impressione che mi sfuggisse qualcosa, qualche elemento che di solito consideravo parte del discorso politico. Non cambiava i termini come fanno certe persone poco convinte, le quali adattano la loro opinione a quella dell’interlocutore, ma non mi pareva mai sostenere un proprio particolare punto di vista. Tutto rimaneva sempre aperto. Sarebbe stato un grande fallimento, se avesse tenuto un filo diretto alla radio o se avesse partecipato come esperto a una tavola rotonda televisiva.

Gli mancava l’indignazione morale. Pareva privo di convinzioni. E chissà se aveva opinioni?

Spesso andavo con lui allo spaccio di grog e gli sentivo discutere argomenti di politica con gli amici, molti dei quali facevano parte di comitati governativi. Tutti ascoltavano, riflettevano, parlavano, spesso con eccitazione e in modo animato, interrompendosi l’un l’altro per sottolineare qualche proprio punto; si appassionavano notevolmente, ma non andavano mai in collera. Nessuno contraddiceva gli altri, neppure in maniera sottile, come per esempio facendo silenzio dopo un’affermazione.

Eppure, non mi davano l’impressione di voler evitare i dissensi, o di uniformare le loro idee a qualche norma, o di mirare a un consenso generale. E, quel che più mi lasciava perplessa, le discussioni politiche si scioglievano improvvisamente in una risata — dalle risatine alle risate a crepapelle; a volte, dal gran ridere, l’intero gruppo finiva per rimanere senza fiato ed era costretto ad asciugarsi gli occhi — come se discutere sulla conduzione del paese fosse la stessa cosa che sedere in compagnia raccontandosi barzellette.