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Dean Koontz

Sussurri

Questo libro è dedicato a Rio e Battista Locatelli, due persone deliziose che meritano il meglio.

PARTE PRIMA

La vita e la morte

Le forze che si ripercuotono sulla nostra vita, le influenze che ci modellano e ci formano, sono spesso come sussurri in una stanza lontana, fastidiosamente indistinti e percepibili a stento.

Charles Dickens

1

Martedì all’alba Los Angeles tremò. I telai delle finestre vibrarono. Le campanelle nelle verande tintinnarono allegramente anche se non c’era vento. In alcune case, i piatti caddero dalle mensole.

All’inizio dell’ora di punta la KFWB, la radio locale, parlava quasi esclusivamente del terremoto. Il sisma aveva raggiunto i 4,8 gradi della scala Richter. Verso la fine dell’ora di punta, la KFWB declassò la notizia del terremoto al terzo posto dopo un servizio su un attentato terroristico a Roma e un incidente che aveva coinvolto cinque macchine sull’autostrada di Santa Monica. Dopotutto, nessun edificio aveva riportato danni. All’ora di pranzo solo uno sparuto numero di persone, la maggior parte delle quali si era trasferita a Los Angeles da meno di un anno, ritenne il sisma degno di venir menzionato a tavola.

L’uomo nel furgone Dodge grigio fumo non si accorse nemmeno che la terra tremava. Si trovava alla periferia nordovest della città e si stava dirigendo verso sud sull’autostrada di San Diego quando ci fu il terremoto. Dato che alla guida di un veicolo è possibile cogliere solo le scosse telluriche più violente, l’uomo si rese conto dell’accaduto solo quando si fermò a fare colazione e udì due clienti che ne parlavano.

Allora si rese subito conto che il terremoto era un segno mandato appositamente per lui, forse per assicurargli che la missione a Los Angeles sarebbe stata un successo, o magari per metterlo in guardia contro un possibile fallimento. Ma qual era il messaggio esatto che avrebbe dovuto dedurne?

Mentre mangiava riflette su quel problema. Era un uomo corpulento: più di un metro e novanta per centocinque chili di muscoli, e ci volle più di un’ora e mezzo per terminare la colazione. Iniziò con due uova, pancetta, formaggio, pane tostato e un bicchiere di latte. Masticava lentamente, metodicamente, con gli occhi fìssi sul cibo come se ne fosse ipnotizzato. Quando finì il primo piatto, ordinò un altro bicchiere di latte e una doppia porzione di frittelle. Finite le frittelle, ingurgitò un’omelette al formaggio con tre fette di pancetta, un’altra porzione di pane tostato e del succo d’arancia.

Allorché ordinò per la terza volta, era già diventato l’argomento principale di conversazione in cucina. La cameriera che lo serviva era un’allegra ragazza con i capelli rossi, di nome Helen, ma anche tutte le sue colleghe trovarono una scusa per passare accanto al suo tavolo e lanciargli un’occhiata. Si rendeva conto di suscitare il loro interesse, ma non gliene importava niente.

Quando alla fine chiese il conto a Helen, la ragazza commentò: «Lei deve essere un taglialegna o qualcosa del genere.»

L’uomo alzò lo sguardo e sorrise forzatamente. Anche se era la prima volta che metteva piede in quel locale, anche se fino a novanta minuti prima Helen era una perfetta sconosciuta, sapeva esattamente che la ragazza gli avrebbe detto qualcosa del genere. Glielo avevano già ripetuto centinaia di volte.

Helen fece una risatina imbarazzata, ma non distolse gli occhi azzurri da quelli dell’uomo. «Volevo dire, lei mangia per tre.»

«Davvero.»

Era in piedi accanto a lui e appoggiò il fianco al bordo del tavolo, sporgendosi leggermente in avanti per fargli capire in maniera inequivocabile che sarebbe anche stata disponibile. «Eppure, nonostante tutto quel cibo… non ha neppure un grammo di grasso addosso.»

Continuando a sorridere, l’uomo cercò di immaginarsi come sarebbe stata a letto. Si vide nell’atto di possedere quel corpo, affondando dentro di lei, e poi vide le proprie mani stringersi intorno al collo, sempre più forte, fino a quando il bel visino di Helen diventava paonazzo e gli occhi le schizzavano fuori delle orbite.

Lei continuava a fissarlo con aria interrogativa, chiedendosi se soddisfacesse tutti i suoi appetiti con lo stesso impegno dimostrato nei confronti del cibo. «Immagino faccia un sacco di ginnastica.»

«Faccio sollevamento pesi,» rispose lui.

«Come Arnold Schwarzenegger.»

«Già.»

Il collo di Helen era lungo e sottile. Si rendeva conto che avrebbe potuto spezzarlo come un ramoscello secco e quel pensiero migliorò notevolmente il suo umore.

«Certo che ha proprio due belle braccia,» proseguì lei sottovoce, in tono di apprezzamento. L’uomo portava una camicia a maniche corte e Helen gli sfiorò l’avambraccio con un dito. «Immagino che con tutto quell’esercizio possa mangiare quello che vuole, tanto il cibo si trasforma in muscoli.»

«Be’, in effetti è così,» bofonchiò lui. «Ma è anche questione di metabolismo.»

«Eh?»

«Brucio un sacco di calorie in energia nervosa.»

«Lei? Nervoso?»

«Nevrastenico come un gatto siamese.»

«Non ci credo. Scommetto che al mondo non c’è niente in grado di farla innervosire.»

Helen era un tipo piacente, sulla trentina, dieci anni meno di lui, e pensò che avrebbe potuto averla se solo ci avesse provato. Avrebbe dovuto corteggiarla un po’, ma neanche troppo, quel che bastava a convincerla che era stato lui a sollevarla di peso per poi depositarla sul letto contro la sua volontà, come Rhett e Rossella O’Hara. Naturalmente, se avesse fatto l’amore con lei, poi avrebbe dovuto ucciderla. Avrebbe dovuto affondare un coltello nel suo grazioso seno oppure tagliarle la gola, e non ne aveva alcuna voglia. Non valeva la pena correre un rischio simile. Non era decisamente il suo tipo: quelle con i capelli rossi non le uccideva mai.

Le lasciò una buona mancia, pagò il conto alla cassa vicino alla porta e uscì. Dopo il ristorante con l’aria condizionata, il calore di settembre lo aggredì minacciando di soffocarlo come un cuscino premuto contro il viso. Si incamminò verso il furgone Dodge, consapevole del fatto che Helen lo stava osservando, ma non si girò neppure una volta.

Si diresse verso un grande magazzino, posteggiò all’angolo di un grande parcheggio, all’ombra di una palma, il più possibile lontano dal negozio. Si arrampicò oltre i sedili, fin sul retro del furgone, abbassò una tendina di bambù che separava la cabina di guida e si distese su un materasso logoro e decisamente troppo corto per lui. Aveva guidato tutta la notte senza fermarsi, da St. Helena, nella zona vinicola. Ora, a pancia piena, era venuto il momento di schiacciare un pisolino.

Quattro ore più tardi si svegliò da un brutto sogno. Era sudato fradicio, tremava e aveva caldo e freddo nello stesso tempo. Con una mano stringeva il materasso e con l’altra vibrava pugni a vuoto in aria. Avrebbe voluto urlare, ma la voce gli si era bloccata in gola: emise soltanto un suono sordo, una specie di rantolo.

Dapprima non riuscì a ricordare dove si trovasse. Il retro del furgone era buio, a eccezione di tre sottili fasci di luce che filtravano attraverso le fessure della tendina di bambù. L’aria era calda e stantia. Si sedette, tastò la parete di metallo con una mano, strizzò gli occhi per riuscire a vedere qualcosa e pian piano fu in grado di orientarsi. Quando finalmente si rese conto di essere nel furgone, si rilassò e si lasciò cadere di nuovo sul materasso.

Cercò di ricordare qualche particolare dell’incubo, ma non ci riuscì. Non era una novità. Praticamente ogni notte della sua vita era stata caratterizzata da sogni orribili: si svegliava terrorizzato, con la bocca secca e il cuore che sobbalzava, ma non una volta era riuscito a capire che cosa lo avesse spaventato.