Выбрать главу

«Ma non hanno ancora preso Frye.»

«Lo prenderanno presto,» la rassicurò Tony. «E convinto che tu sia Katherine e quindi non si allontanerà troppo da Westwood. Terrà d’occhio casa tua per vedere se torni e prima o poi riusciranno a individuarlo e sarà tutto finito.»

«Stringimi.»

«Certo.»

«Mmmm. È carino.»

«Già.»

«Rimanere così abbracciati.»

«Sì.»

«Mi sento già meglio.»

«Andrà tutto bene.»

«Finché ci sarai tu.»

«Allora, per sempre.»

Il cielo era scuro, cupo e minaccioso. Le vette delle Mayacamas erano avvolte dalle nubi.

Peter Laurenski era in piedi davanti alla tomba, le mani in tasca e le spalle strette per proteggersi dall’aria gelida.

Usando una robusta zappa e poi una pala per togliere l’ultimo strato di terra, gli uomini del Napa County Memorial Park scavarono nel terreno soffice, distruggendo la fossa di Bruno Frye. Mentre lavoravano, continuavano a lamentarsi con lo sceriffo perché non venivano pagati per alzarsi all’alba, saltando persino la colazione, ma non vennero presi molto in considerazione: Laurenski li invitò semplicemente a scavare con più lena.

Alle 7.45 Avril Tannerton e Gary Olmstead arrivarono con il carro funebre della Forever View. Si diressero verso Laurenski: Olmstead aveva un’aria triste mentre Tannerton sorrideva, respirando a pieni polmoni, come se stesse semplicemente facendo la sua passeggiata quotidiana.

«Buongiorno, Peter.»

«Buongiorno, Avril. Gary.»

«Quanto ci vuole prima che la aprano?» domandò Tannerton.

«Hanno detto un quarto d’ora.»

Alle 8.05, uno degli uomini si issò dalla fossa e chiese: «Siete pronti per tirarlo fuori?»

«Vediamo di sbrigarci,» sbottò Laurenski.

Furono attaccate delle catene alla cassa, che fu estratta dal terreno con lo stesso procedimento utilizzato per calarcela la domenica precedente. La bara color bronzo era ricoperta di terra attorno alle maniglie e nelle fessure, ma nel complesso era ancora ben tenuta.

Alle 8.40, Tannerton e Olmstead caricarono la cassa sul carro.

«Vi seguirò fino all’ufficio del coroner,» disse lo sceriffo.

Tannerton fece una smorfia. «Peter, ti assicuro che non abbiamo intenzione di scappare con i resti di Mr Frye.»

Alle 8.20, mentre la cassa veniva riesumata nel cimitero a poche miglia di distanza, Tony e Hilary sistemavano i piatti della colazione nel lavandino della cucina di Joshua Rhinehart.

«Li laverò più tardi,» disse Joshua. «Andiamo subito in cima alla collina e apriamo la casa. Deve esserci una puzza micidiale dopo tutti questi anni. Spero solo che la muffa e la ruggine non abbiano rovinato troppo la collezione di Katherine. Ho avvisato Bruno almeno un migliaio di volte, ma sembrava non gliene importasse nulla…» Joshua si bloccò e battè le palpebre. «Sto dicendo una stupidaggine, vero? Per forza non gliene fregava niente anche se marciva tutto. Quegli oggetti appartenevano a Katherine e non gliene fregava assolutamente niente della sua collezione.»

Si recarono alla Shade Tree Vineyards con la macchina di Joshua. La giornata era tetra e la luce grigiastra. Joshua posteggiò nel parcheggio riservato agli impiegati.

Gilbert Ulman non era ancora arrivato. Era il meccanico che si occupava della manutenzione della funivia e di tutta l’attrezzatura e i macchinali della Shade Tree Vineyards.

La chiave che metteva in funzione la funivia era appesa nel garage e il portiere di notte, un corpulento uomo di nome Iannucci, fu felice di andarla a prendere per Joshua.

Con la chiave, in mano Joshua condusse Hilary e Tony fino al primo piano dell’enorme costruzione, attraverso gli uffici amministrativi, un laboratorio vinicolo e una larga passerella. Metà dell’edificio si apriva dal pianterreno fino al soffitto e in quell’enorme locale erano stati sistemati i giganteschi serbatoi per la fermentazione. L’aria gelida circolava fra le cisterne alte tre piani e ovunque regnava l’odore del vino che fermentava. In fondo alla lunga passerella oltrepassarono una pesante porta in legno di pino con i cardini in ferro che si apriva su una stanza minuscola. Il tetto si estendeva per circa quattro metri oltre la parete mancante per proteggere dalla pioggia il locale dei serbatoi. La cabina a quattro posti, completamente chiusa dai vetri, era appoggiata sotto il tetto sospeso, all’estremità opposta del locale.

Nel laboratorio di patologia regnava un vago e sgradevole odore di sostanze chimiche che avvolgeva lo stesso coroner, il dottor Amos Garnet, intento a succhiare una caramella alla menta.

C’erano cinque persone nel locale: Laurenski, Larsson, Garnet, Tannerton e Olmstead. Nessuno, a eccezione di Tannerton, perennemente di buonumore, sembrava felice di trovarsi lì.

«Apritela,» ordinò Laurenski. «Ho un appuntamento con Joshua Rhinehart.»

Tannerton e Olmstead tolsero i ganci dalla cassa. Gli ultimi pezzi di terriccio caddero sul telo di plastica che Garnet aveva sistemato sul pavimento. Spostarono il coperchio e lo alzarono.

Il corpo era scomparso.

La cassa rivestita di seta e di velluto conteneva solo i tre sacchi di calcina di venticinque chili ciascuno rubati una settimana prima dalla casa di Avril Tannerton.

Hilary e Tony si sedettero nella funivia e Joshua prese posto di fronte a loro. Le ginocchia dell’avvocato sfioravano quelle di Tony.

Hilary strinse la mano di Tony mentre la cabina si muoveva molto lentamente lungo il cavo, verso la sommità della parete rocciosa. Non aveva paura dell’altezza, ma quel veicolo aveva un aspetto così instabile che non poté fare a meno di digrignare i denti.

Joshua notò la tensione sul suo viso e sorrise. «Non si preoccupi. Questo aggeggio è piccolo ma resistente. E Gilbert effettua una perfetta manutenzione.»

Il vagone iniziò ad arrampicarsi gradualmente, oscillando per il vento gelido del mattino.

La veduta della vallata era sempre più spettacolare. Hilary cercò di concentrarsi sul paesaggio e non sugli scricchiolii prodotti dalla funivia.

Finalmente la cabina raggiunse la fine del cavo. Si bloccò e Joshua aprì la portiera.

Mentre uscivano nella stazione superiore, un lampo biancastro squarciò il cielo e un violento tuono rimbombò nell’aria cupa. Cominciò a piovere. Erano gocce sottili e gelate.

Joshua, Hilary e Tony corsero a ripararsi. Si precipitarono verso i gradini e attraversarono il portico fino all’ingresso.

«E diceva che qui non c’è il riscaldamento, vero?» disse Hilary.

«La caldaia è rimasta spenta per cinque anni,» spiegò Joshua. «E per questo che vi ho consigliato di infilare un maglione pesante sotto l’impermeabile. Oggi non fa molto freddo, ma, con questa umidità, fra un po’ sarete gelati.»

Joshua aprì la porta ed entrò, seguito da Hilary e Tony; ognuno accese la propria torcia. «Che puzza,» esclamò Hilary.

«La muffa,» spiegò Joshua. «Proprio quello che temevo.» Attraversarono l’ingresso e proseguirono verso l’enorme soggiorno. I fasci di luce illuminavano quello che sembrava un magazzino colmo di mobili antichi.

«Mio Dio,» commentò Tony, «è ancora peggio della casa di Bruno. Si fa fatica a camminare.»

«Katherine era letteralmente ossessionata dalle cose belle,» spiegò Joshua. «Non lo faceva per investire. E nemmeno perché le piaceva ammirare la sua collezione. Molti oggetti sono nascosti negli armadi. I quadri sono ammonticchiati gli uni sugli altri. E come potete vedere voi stessi, c’è decisamente troppa roba. Sono troppo ammassati per risultare piacevoli.»

«Se in ogni stanza ci sono oggetti di questo valore,» disse Hilary, «qui ci dev’essere un’autentica fortuna.»

«Già,» convenne Joshua. «Se non se la sono mangiati i vermi, le termiti e chissà cos’altro.» Fece scorrere il fascio di luce da un angolo all’altro della stanza. «Non sono mai riuscito a capire questa sua mania per il collezionismo. Almeno fino a questo momento. Mi stavo chiedendo se… guardando tutti questi oggetti e ripensando a quello che ci ha detto Mrs Yancy…»