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Che tristezza si respira qui dentro, pensò Tony Clemenza. Oscure zone di desideri non appagati. Una scacchiera di solitudini. Una quieta disperazione in un turbinio di colori.

Ma lui e Frank Howard non erano certo andati lì per studiare le impressioni legate al tramonto e ai frequentatori del bar. Erano alla ricerca di una traccia che li portasse a Bobby «Angel» Valdez.

In aprile, Bobby Valdez era uscito di prigione dopo aver scontato sette anni e pochi mesi di una condanna a quindici anni per violenza e omicidio. La sua liberazione si era rivelata un grave errore.

Otto anni prima Bobby aveva violentato tre donne a Los Angeles, ma probabilmente era responsabile di sedici casi di stupro. La polizia aveva raccolto le prove su tre casi, ma c’erano forti sospetti anche per quanto riguardava gli altri. Una notte, Bobby aveva avvicinato una donna in un posteggio, l’aveva obbligata a salire in macchina sotto la minaccia di una pistola, l’aveva condotta in una strada polverosa sulle colline di Hollywood, le aveva strappato i vestiti di dosso, l’aveva violentata ripetutamente, poi l’aveva spinta giù dalla macchina e si era allontanato. Ma aveva posteggiato sul ciglio della strada che si apriva direttamente su un precipizio. La donna, scaraventata nuda fuori della macchina, aveva perso l’equilibrio ed era caduta lungo la scarpata. Era finita su una palizzata semidistrutta. Una palizzata in legno completamente scheggiata, con del filo spinato arrugginito. Le spine del filo le avevano lacerato il corpo e uno spuntone di legno scolorito e frastagliato del diametro di dieci centimetri le aveva trafitto la pancia, impalandola. Mentre sottostava ai desideri di Bobby all’interno della macchina, era riuscita ad afferrare una minuscola ricevuta di un acquisto pagato con la carta di credito e, rendendosi conto della sua importanza, lo aveva tenuto stretto mentre precipitava verso la staccionata, incontro alla morte. Inoltre, la polizia aveva appreso che la vittima indossava solo un particolare tipo di mutandine, un regalo del suo ragazzo. All’interno di ogni paio, la ragazza aveva ricamato la scritta: PROPRIETÀ DI HARRY. Un paio di quelle mutandine sudicie e strappate erano state ritrovate nella collezione di biancheria rinvenuta nell’appartamento di Bobby. Quel particolare e il foglietto di carta che la vittima stringeva in mano avevano portato all’arresto di Valdez.

Sfortunatamente per gli abitanti della California, le circostanze sembrarono agire in favore di Bobby. Gli agenti avevano commesso un insignificante errore di procedura al momento dell’arresto, proprio il genere di cose che normalmente portano i giudici a pronunciare un’appassionata arringa sui diritti costituzionali. A quell’epoca il procuratore, un certo Kooperhausen, era occupato a difendersi dall’accusa di corruzione politica. Consapevole del fatto che un atteggiamento scorretto al momento dell’arresto avrebbe potuto mettere in pericolo l’intero sistema giudiziario, e preoccupato di salvarsi il culo evitando uno scandalo, il procuratore accettò la proposta dell’avvocato difensore e giudicò Bobby colpevole di tre casi di stupro e di un omicidio, lasciando cadere tutti gli altri capi d’accusa. Molti detective della squadra omicidi, fra cui Tony Clemenza, ritenevano che Kooperhausen avrebbe dovuto fare il possibile e condannarlo per omicidio di secondo grado, rapimento, violenza e sodomia. Le prove erano schiaccianti. Tutto sembrava essere contro Bobby, ma il destino l’aveva inaspettatamente aiutato.

Bobby era tornato un uomo libero.

Ma non per molto, pensò Tony.

In maggio, un mese dopo essere stato rilasciato, Bobby «Angel» Valdez non si era presentato all’incontro con l’agente di polizia. Aveva abbandonato il vecchio appartamento senza compilare i documenti necessari e senza presentarli alle autorità. Era svanito nel nulla.

In giugno, aveva ricominciato a violentare. Detto, fatto. Così come si riprende a fumare dopo essere riusciti a smettere per alcuni anni. Come rinasce l’interesse per un vecchio hobby. Aveva molestato due donne in giugno. Due in luglio. Tre in agosto. Altre due nei primi dieci giorni di settembre. Dopo ottantotto mesi passati dietro le sbarre, Bobby desiderava ardentemente la carne di una donna: era un bisogno insaziabile.

La polizia era convinta che quei nove crimini e forse anche molti altri mai denunciati fossero opera dello stesso individuo, ed erano altrettanto sicuri che il responsabile fosse Bobby Valdez. Innanzitutto, tutte le donne erano state avvicinate nello stesso modo. L’uomo faceva la sua comparsa mentre le vittime scendevano dalla macchina da sole, di notte, in un posteggio. Dopo aver puntato la pistola alla schiena oppure sulla pancia, lui esclamava: «Sono un simpaticone. Vieni a festeggiare con me e non ti farò del male, ma, se rifiuti, ti farò saltare le cervella. Se starai al gioco, non avrai nulla da temere. Sono un gran simpaticone.» Ripeteva praticamente la stessa cosa ogni volta e le vittime ricordavano bene quelle frasi un po’ strane, pronunciate con la voce acuta e quasi femminea di Bobby. Era lo stesso tipo di approccio che Bobby aveva usato più di otto anni prima, quando aveva iniziato la sua carriera di violentatore.

Inoltre, le nove vittime avevano fornito descrizioni incredibilmente simili dell’uomo che le aveva violentate. Snello. Meno di 1.75. Circa settanta chili. Carnagione scura. Fossetta sul mento. Occhi e capelli scuri. Vocetta stridula. Alcuni dei suoi amici lo chiamavano «Angel» a causa del tono di voce e del bel visino da bimbo. Bobby aveva trent’anni ma ne dimostrava sedici. Le nove vittime avevano visto in faccia il loro aggressore e avevano riferito che assomigliava a un bambino ma si comportava come un maniaco intelligente e crudele.

Il capo barman del Paradise ordinò ai suoi due aiutanti di continuare senza di lui ed esaminò le tre foto segnaletiche di Bobby Valdez che Frank Howard aveva appoggiato sul bancone. Si chiamava Otto. Era un bell’uomo, abbronzato e con la barba. Indossava un paio di pantaloni bianchi e una camicia azzurra con i primi tre bottoni slacciati. Il torace scuro era coperto di peli biondi. Attorno al collo portava una catena d’oro con un dente di pescecane. Alzò lo sguardo verso Frank e corrugò la fronte. «Non sapevo che la polizia di Los Angeles avesse giurisdizione a Santa Monica.»

«Abbiamo ottenuto l’autorizzazione dal dipartimento di polizia di Santa Monica,» spiegò Tony.

«Eh?»

«La polizia di Santa Monica sta collaborando con noi in questo caso,» proseguì Frank impaziente. «Allora, ha mai visto questo tipo?»

«Sì, certo. È stato qui un paio di volte,» rispose Otto.

«Quando?» chiese Frank.

«Oh… un mese fa. Forse di più.»

«Non si è visto negli ultimi tempi?»

L’orchestra ritornò dopo una pausa di venti minuti e iniziò a suonare una canzone di Billy Joel.

Otto alzò la voce per farsi sentire. «Non lo vedo da almeno un mese. Il motivo per cui me lo ricordo è che non pensavo avesse l’età per bere alcolici. Gli ho chiesto di mostrarmi un documento di identità e lui è andato su tutte le furie. Ha fatto una scenata.»

«Che genere di scenata?» domandò Frank.

«Ha chiesto di vedere il direttore.»

«È tutto?» incalzò Tony.

«Mi ha insultato pesantemente.» Otto aveva uno sguardo inferocito. «E nessuno può permettersi di insultarmi così.»

Tony si mise una mano attorno all’orecchio per riuscire a decifrare le parole del barista nonostante la musica. Gli piacevano molto le canzoni di Billy Joel, ma non quando venivano suonate da un’orchestrina convinta che l’entusiasmo e gli amplificatori potessero supplire a uno scarso talento musicale.