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Per il resto della carriera come detective della Omicidi, Tony si sarebbe aspettato molto da chiunque avesse lavorato con lui perché per cinque anni, fino al mese di maggio, era stato affiancato da un compagno praticamente perfetto, Michael Savatino. Sia lui sia Michael provenivano da famiglie italiane e condividevano quindi gli stessi ricordi, gli stessi dolori e le stesse gioie. Inoltre, fattore ancora più importante, si avvalevano degli stessi metodi sul lavoro e amavano gli stessi passatempi. Michael era un divoratore di libri, un appassionato di cinema e un eccellente cuoco. Le loro giornate erano sempre state costellate da conversazioni estremamente interessanti.

Nel mese di febbraio, Michael e Paula, sua moglie, erano andati a Las Vegas per un fine settimana. Avevano assistito a due spettacoli. Avevano cenato due volte al Battista’s Hole in the Wall, il miglior ristorante della città. Avevano puntato su una decina di numeri senza vincere nulla. Avevano giocato a black jack e avevano perso sessanta dollari. Poi, un’ora prima della partenza, Paula aveva infilato un dollaro in una slot machine che le era parsa particolarmente invitante, aveva abbassato la leva e aveva vinto poco meno di duecentoventimila dollari.

Il lavoro di poliziotto non era mai stato la massima aspirazione di Michael. Ma, come Tony, era alla ricerca di un posto sicuro. Aveva frequentato l’accademia di polizia e da semplice poliziotto in uniforme era rapidamente diventato investigatore, ma sostanzialmente perché un lavoro del genere offriva una certa sicurezza economica. In marzo, comunque, Michael aveva presentato le dimissioni al dipartimento con sessanta giorni di preavviso e in maggio se n’era andato. Aveva sempre desiderato possedere un ristorante. Cinque settimane prima aveva aperto Savatino’s, un piccolo ma autentico ristorante italiano sul Santa Monica Boulevard, non lontano da Century City.

Un sogno che si era avverato.

Quante probabilità ho di realizzare i miei sogni come ha fatto lui? si chiese Tony mentre studiava la città avvolta dalle tenebre. Quante probabilità ho di andare a Las Vegas, di vincere duecentomila dollari, di lasciare la polizia e di tentare il colpo come artista?

Non era necessario esprimere quella domanda a voce alta. Non aveva bisogno del parere di Frank Howard. Conosceva già la risposta. Quante probabilità aveva? Ben poche. Aveva le stesse probabilità di scoprire che era il figlio disperso di uno sceicco arabo.

Se Michael Savatino aveva sempre sognato di aprire un ristorante, Tony Clemenza sperava un giorno di potersi guadagnare da vivere come artista. Aveva talento. Aveva realizzato opere raffinate con metodi diversi: a penna, ad acquerello e a olio. Non era soltanto dotato dal punto di vista tecnico, possedeva anche una capacità creativa assolutamente unica. Forse se fosse nato in una famiglia della media borghesia con discrete risorse economiche, avrebbe potuto frequentare un’ottima scuola, avrebbe ricevuto una buona educazione dai migliori professori, avrebbe affinato il talento ricevuto da Dio e sarebbe diventato un artista di successo. Invece si era costruito da solo, grazie a centinaia di libri d’arte e con ore e ore di diligenti esercizi di disegno e di sperimentazione con i diversi materiali. Inoltre soffriva di quella perniciosa mancanza di fiducia in se stessi che caratterizza gli autodidatti di qualsiasi settore. Anche se aveva partecipato a quattro concorsi, vincendo per ben due volte il primo premio nella sua categoria, non aveva mai pensato seriamente di lasciare il lavoro e di immergersi in una vita più creativa. Era solo una fantasia piacevole e ricorrente, un bel sogno a occhi aperti. Il figlio di Carlo Clemenza non avrebbe mai rinunciato allo stipendio di fine mese per le incertezze di un lavoro in proprio, a meno di vincere una montagna di soldi a Las Vegas.

Era invidioso del colpo di fortuna di Michael Savatino. Naturalmente, erano rimasti buoni amici ed era davvero felice per Michael. Contento. Sul serio. Ma anche invidioso. Dopotutto era un essere umano e ogni tanto nella sua mente si riaccendeva quell’interrogativo, simile a un’insegna al neon: Non poteva capitare a me?

Frank premette il pedale del freno e suonò il clacson alla Corvet che gli aveva tagliato la strada, strappando Tony dai suoi sogni. «Stronzo!»

«Calmati, Frank.»

«A volte vorrei essere ancora in divisa, per appioppare qualche bella multa.»

«È l’ultima cosa che desideri al mondo.»

«Gli farei un bel culo.»

«E magari salta fuori che è fuori di testa per la droga o che non ha tutte le rotelle a posto. Quando lavori in mezzo al traffico per molto tempo, hai la tendenza a dimenticare che il mondo è pieno di pazzi. Ti abitui alla routine e diventi meno attento. Magari lo fermi oppure ti avvicini con il blocchetto delle multe in mano e quello ti dà il benvenuto con una pistola. Magari ti fa saltare le cervella. No. Sono contento di non avere più a che fare con il traffico. Perlomeno, quando lavori alla squadra Omicidi, sai che genere di persone ti puoi trovare davanti. Sai bene che ci può essere qualcuno che ti aspetta con una pistola, un coltello o una spranga in mano. Quando lavori alla squadra Omicidi è molto meno probabile che ti facciano una bella sorpresina.»

Frank rifiutò di farsi trascinare in un’altra discussione. Continuò a tenere gli occhi fissi sulla strada, mugugnando e trincerandosi dietro il solito silenzio.

Tony sospirò e si mise a osservare il paesaggio circostante con l’occhio dell’artista, pronto a cogliere un dettaglio inaspettato o mai notato prima di allora.

Impressioni.

Ogni scena, ogni paesaggio, ogni strada, ogni edificio, ogni stanza all’interno di una casa, ogni persona, ogni cosa suggerivano una particolare impressione. Se si riusciva a cogliere l’impressione dettata da una scena era possibile spingersi oltre, fino alla struttura che stava alla base. Se si riusciva a fermare il meccanismo che dava forma all’armonia di fondo, era possibile comprendere il significato intrinseco delle cose e quindi dipingerle in modo adeguato. Se ci si limitava ad afferrare i pennelli e ad avvicinarsi alla tela senza aver compiuto una tale analisi, il risultato poteva essere un quadro accettabile, ma non certo un’opera d’arte.

Impressioni.

Mentre Frank Howard svoltava sul Wilshire, dirigendosi verso il bar di Hollywood chiamato The Big Quake, Tony si mise alla ricerca di nuove impressioni legate alla città e alla notte. Arrivando da Santa Monica, vide dapprima la lunga fila di casette affacciate sul mare e i contorni indefiniti delle palme alte e ben ordinate: suggerivano immagini di serenità, cortesia e discreta agiatezza. Entrando a Westwood, il paesaggio sembrava dominato da una forma rettilinea: ammassi di grattacieli e macchie oblunghe di luce provenienti dalle finestre che si aprivano sui lati più scuri degli edifici. Quelle forme precise e perfettamente rettangolari erano la rappresentazione visiva del pensiero moderno e del potere e suggerivano una ricchezza ancora maggiore di quella che traspariva dalle case sul lungomare di Santa Monica. Proseguirono verso Beverly Hills, un angolino isolato all’interno dell’enorme metropoli, un luogo in cui la polizia di Los Angeles poteva passare senza esercitare tuttavia alcuna autorità. A Beverly Hills tutto era morbido, lussureggiante e scintillante in un grazioso susseguirsi di ville enormi, parchi, giardini, negozi esclusivi e automobili costose concentrati in pochi isolati come non avveniva in alcun altro paese della terra. Dal Wilshire Boulevard al Santa Monica Boulevard fino a Doheny, si aveva l’impressione di vivere in un lusso sempre crescente.

Svoltarono a nord, verso Doheny, si arrampicarono sulle colline ripide e si ritrovarono sul Sunset Boulevard, verso il cuore di Hollywood. In un paio di isolati, quella strada sembrava concentrare tutto ciò che l’aveva resa celebre. Sulla destra c’era Scandia, uno dei ristoranti più eleganti della città e uno dei migliori dell’intero paese. Discoteche scintillanti. Un night club specializzato in giochi di prestigio. Un altro locale gestito da un ipnotizzatore. Luoghi di ritrovo. Club del rock and roll. Enormi cartelloni luminosi che pubblicizzavano i film in prima visione e gli attori più famosi del momento. Luci, luci e ancora luci. All’inizio, il boulevard sembrava confermare la tesi sostenuta dalle università e dal governo, secondo cui Los Angeles e i suoi sobborghi costituivano l’area metropolitana più ricca del paese e forse del mondo intero. Ma poco più avanti, proseguendo in direzione est, la patina dorata svaniva. Persino Los Angeles soffriva di senescenza. L’immagine si faceva marginalmente ma inconfondibilmente cancerosa. Nel corpo florido della città si sviluppavano qua e là escrescenze maligne. Bar da quattro soldi, un locale di striptease, una stazione di servizio ormai in rovina, istituti di bellezza dall’aria equivoca, un negozio con libri per adulti e alcuni edifici che avevano urgente bisogno di essere ristrutturati. La malattia non era allo stadio avanzato, come in molti altri quartieri, ma giorno dopo giorno rosicchiava parte del tessuto vitale. Frank e Tony non dovettero comunque giungere sino al focolaio dell’orribile tumore, dal momento che The Big Quake si trovava al limite della zona maligna. Il locale apparve improvvisamente sul lato destro della strada in un baluginare di luci rosse e azzurre.