Scese dal furgone e si diresse al telefono pubblico più vicino. L’aria umidiccia sapeva vagamente di sale, di alghe e di lubrificante. L’acqua sbatteva contro i pali di sostegno e contro gli scafi delle imbarcazioni aumentando la sensazione di abbandono. Attraverso il plexiglas della cabina telefonica si stagliavano file e file di alberi che si ergevano dalle barche attraccate come una foresta spoglia che fa capolino nell’oscurità. Più o meno nello stesso momento in cui Hilary Thomas stava chiamando la polizia, lui telefonò a Napa County per comunicare che l’attacco era fallito.
L’uomo all’altro capo del filo rimase ad ascoltare senza interromperlo e alla fine commentò: «Mi occuperò io della polizia.»
Parlarono per un altro paio di minuti e alla fine Frye riappese. Uscì dalla cabina e si fermò un istante a guardare sospettoso l’oscurità e le spire di nebbia. Katherine non poteva averlo seguito, ciononostante il fatto di trovarsi al buio, da solo, lo riempiva di terrore. Era un uomo grande e grosso. Non avrebbe dovuto aver paura delle donne. Invece era proprio così. Aveva paura di colei che non voleva morire, di colei che ora si faceva chiamare Hilary Thomas.
Tornò dietro il volante del suo furgoncino dove rimase per qualche minuto prima di rendersi conto che aveva fame. Stava morendo di fame. Lo stomaco brontolava. Era dall’ora di pranzo che non mangiava nulla. Conosceva Marina Del Rey quel tanto che bastava per sapere che non c’erano ristoranti decenti a portata di mano. Si diresse verso sud sulla Pacific Coast Highway, sul Culver Boulevard, poi svoltò a sinistra e proseguì di nuovo verso sud, in direzione di Vista Del Mar. Dovette procedere con cautela, per via della nebbia sempre più fitta che rifletteva la luce dei fari, riducendo così la visibilità a pochi metri. Gli sembrava di guidare sott’acqua, in un oceano fosforescente e tenebroso.
Una ventina di minuti dopo la telefonata a Napa County (e più o meno mentre lo sceriffo Laurenski stava scartabellando alcune pratiche per conto della polizia di Los Angeles) Frye riuscì a trovare un ristorante allettante lungo il ciglio settentrionale di El Segundo. L’insegna rossa e gialla trafiggeva la cortina nebbiosa: GARRIDO’S. Era un locale messicano, ma non una delle solite bettole norte-americana fatte di vetro e cromature dove servivano imitazioni di comida. Quello sembrava genuinamente messicano. Accostò e andò a posteggiare fra due macchine truccate dotate di sollevatori idraulici, estremamente popolari fra i giovani messicani. Dirigendosi verso l’ingresso passò davanti a un’auto che sfoggiava un adesivo di POTERE AI MESSICANI e un secondo di SOSTENITORE DEL SINDACATO DEGLI AGRICOLTORI. Frye sentiva già il profumo delle enchiladas.
All’interno, Garrido’s aveva più l’aspetto di un bar che di un ristorante, ma l’aria che si respirava era impregnata della fragranza tipica della buona cucina messicana. Sulla sinistra c’era il bancone, in legno macchiato e sgretolato, che occupava un intero lato della sala. Una decina di uomini e due graziose señoritas sedevano sugli sgabelli appoggiati al bar e discorrevano in spagnolo. Al centro della sala era disposta un’unica fila di tavoli ricoperti da tovaglie rosse. Erano tutti occupati da gente che beveva e mangiava avidamente. Sulla destra, contro la parete, si aprivano alcuni séparé rivestiti in finta pelle e Frye si accomodò in uno di questi.
La cameriera che si affrettò verso il suo tavolo era bassa, praticamente più larga che alta, con una faccia rotonda e incredibilmente carina. Cercando di superare la voce dolce e lamentosa di Freddie Fender che proveniva dal juke box, domandò a Frye che cosa desiderava mangiare e annotò l’ordinazione: una doppia porzione di chili e due bottiglie di Dos Equis gelata.
Frye indossava ancora i guanti di pelle; se li sfilò e intrecciò le mani.
A parte una biondina seduta in compagnia di uno stallone messicano baffuto, Frye era l’unico a non avere sangue messicano nelle vene. Sapeva di essere osservato, ma non gliene importava nulla.
La cameriera gli servì immediatamente la birra. Frye ignorò il bicchiere e si portò la bottiglia alle labbra. Chiuse gli occhi, rovesciò la testa all’indietro e trangugiò a canna. In meno di un minuto aveva scolato la bottiglia. Consumò la seconda con meno fretta, ma la finì comunque prima dell’arrivo della cena. Ordinò altre due Dos Equis.
Bruno Frye mangiò con voracità e concentrazione assolute, riluttante o incapace di alzare gli occhi dal piatto, incurante di tutta la gente che lo circondava e con la testa abbassata per ingurgitare i bocconi con la frenesia di un affamato sgraziato. Emettendo mormorii di approvazione, continuò a portarsi forchettate di chili alla bocca, a trangugiare con voracità, a masticare velocemente e rumorosamente con le guance rigonfie. Gli servirono anche un piatto di tortillas che utilizzò per raccogliere la deliziosa salsa rimasta nel piatto. Innaffiò il cibo con abbondanti sorsate di birra ghiacciata.
Quando la cameriera passò per chiedergli se andava tutto bene, si accorse immediatamente dell’inutilità della domanda. Frye alzò lo sguardo leggermente annebbiato verso di lei. Con una voce che sembrava venire da lontano ordinò due tacos di manzo, un paio di enchiladas al formaggio, riso, fagioli e altre due bottiglie di birra. La cameriera strabuzzò gli occhi ma era troppo gentile per fare commenti.
Finì il chili prima che potesse servirgli la seconda parte dell’ordinazione, ma, anche con il piatto pulito sotto gli occhi, non riuscì a uscire dallo stato di trance. Su ogni tavolo c’era una ciotola colma di tacos e Frye afferrò la sua. Intinse alcuni tacos nella salsa piccante, se li infilò in bocca e iniziò a masticare rumorosamente con espressione deliziata. Quando arrivò la cameriera con gli altri piatti e le birre, riuscì a mormorare due parole di ringraziamento prima di tuffarsi sull’enchilada al formaggio. Finì i tacos e le altre portate. Sul collo prese a pulsargli vistosamente una vena. Anche la fronte era attraversata da vene in rilievo. Il viso era ricoperto da un leggero strato di sudore che cominciava a colargli anche dall’attaccatura dei capelli. Alla fine, ingoiò l’ultimo boccone di fagioli, lo innaffiò con la birra e spostò di lato i piatti ormai vuoti. Per un po’ rimase seduto con una mano appoggiata sulla gamba e l’altra stretta intorno alla bottiglia a fissare un punto nel vuoto. Lentamente, il sudore evaporò e la musica del juke box cominciò a distrarlo: era un altro brano di Freddie Fender.
Riprese a sorseggiare la birra, mentre osservava gli altri commensali, dimostrando per la prima volta un certo interesse. La sua attenzione venne attirata da un gruppo seduto al tavolo vicino all’ingresso. Due coppiette. Ragazze carine. Giovani attraenti e scuri. Erano tutti sulla ventina. I ragazzi stavano cercando di far colpo sulle donne, facendo i galletti, forse anche troppo, nel tentativo di impressionare le gallinelle.
Frye decise di divertirsi un po’ con loro. Rifletté cercando di trovare un modo per iniziare, mentre sorrideva all’idea della scena che avrebbe provocato.
Chiese il conto alla cameriera e pagò con alcune banconote aggiungendo: «Tenga pure il resto.»
«Lei è molto generoso,» lo ringraziò, sorridendo e continuando ad annuire mentre tornava al registratore di cassa.
Frye si infilò i guanti di pelle.
Scivolando fuori del séparé, prese la sesta bottiglia di birra che era rimasta semipiena. Si diresse verso l’uscita e finse di inciampare in una sedia mentre passava davanti alle coppiette che avevano attirato la sua attenzione. Vacillò un po’, riprese agilmente l’equilibrio e si sporse sul tavolo dei quattro ragazzi che lo guardarono sorpresi, mettendo bene in mostra la bottiglia di birra per dare l’impressione di essere ubriaco.