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«Ci chiami. Ci saranno delle pattuglie in questa zona. Correremo qui e…»

«… giusto in tempo per chiamare un prete e un’agenzia di pompe funebri.»

«Non ha niente da temere ma…»

«Temere? Mi dica, agente Farmer, dovete seguire un corso di frasi fatte prima di diventare piedipiatti?»

«Sto solo facendo il mio dovere, Miss Thomas.»

«Ah… lasciamo perdere.»

Farmer si era portato via la pistola e Hilary aveva imparato una lezione preziosa. Il dipartimento di polizia faceva parte del governo e non ci si poteva certo fidare. Se il governo non riusciva a far quadrare il proprio bilancio e a ridurre l’inflazione, se non riusciva a porre fine alla corruzione dilagante nei suoi uffici, se iniziava persino a perdere il potere e i mezzi per mantenere un esercito e proteggere la nazione, perché mai avrebbe dovuto impedire a un maniaco di farla a pezzi?

Aveva già imparato da tempo che non era facile trovare qualcuno su cui fare affidamento. Non certo i suoi genitori, né i parenti: nessuno voleva essere coinvolto. Nemmeno quei ciarlatani degli assistenti sociali, ai quali si era rivolta in cerca d’aiuto quando era bambina. Né la polizia. Anzi, era sempre più convinta di poter contare solo su se stessa.

E va bene, pensò furiosa. Okay. Me la vedrò io con Bruno Frye.

Come?

In qualche modo.

Uscì dalla cucina con il coltello in mano, si diresse verso il mobile bar rivestito di specchi, incassato in una nicchia tra il soggiorno e lo studio e si versò una dose generosa di Remy Martin in un bicchiere di cristallo. Portò nella camera degli ospiti il coltello e il brandy, e spense tutte le luci, quasi in segno di sfida.

Chiuse a chiave la porta della stanza e cercò qualcosa per barricarla. Contro la parete, era appoggiato un cassettone, un mobile massiccio in pino scuro, più alto di lei. Pesava troppo per riuscire a spostarlo, ma Hilary risolse il problema togliendo tutti i cassetti e mettendoli da parte. Trascinò il mobile sul tappeto, lo spinse contro la porta e rimise i cassetti al loro posto. A differenza di molti cassettoni, questo non aveva gambe; poggiava sul pavimento e aveva un baricentro relativamente basso che lo rendeva un ostacolo praticamente insormontabile per chiunque avesse cercato di entrare.

Andò in bagno, appoggiò il coltello e il brandy sul pavimento, riempì la vasca, si spogliò e si immerse lentamente nell’acqua calda. Da quando era rimasta immobilizzata sotto il corpo di Frye, sul pavimento della camera da letto, e aveva sentito la mano dell’uomo palparle l’inguine, strappandole gli slip, si era sentita sporca, contaminata. Si insaponò con grande soddisfazione e nell’aria si diffuse un gradevole profumo di lillà. Si strofinò con forza con una spugna, fermandosi solo di tanto in tanto per sorseggiare il Remy Martin. Quando si sentì finalmente pulita, appoggiò la saponetta e si immerse ancora di più nell’acqua profumata. Il vapore l’avvolgeva e il brandy la riscaldava internamente: la piacevole combinazione di calore interno ed esterno fece comparire qualche goccia di sudore sulla fronte. Chiuse gli occhi e si concentrò sul contenuto del bicchiere di cristallo.

Il corpo umano non resiste a lungo senza il giusto sostentamento. Il corpo, dopotutto, è una macchina meravigliosa composta da molti tipi di tessuti e liquidi, sostanze chimiche e minerali, un sofisticato insieme con un motore centrale e altri piccoli congegni, un sistema di lubrificazione e uno di ventilazione, diretti dal computer-cervello, con ingranaggi costituiti dai muscoli e una struttura in calce. Per funzionare, questa macchina ha bisogno di diversi elementi, fra i quali l’alimentazione, il riposo e il sonno. Hilary era convinta che non sarebbe riuscita a dormire dopo quello che era successo, che avrebbe trascorso la notte con le orecchie tese come un gatto, pronta a cogliere il minimo segnale di pericolo. Ma quella sera aveva già disperso molte energie e, nonostante la mente si rifiutasse di rilassarsi, il suo inconscio sapeva che era necessario e inevitabile. Quando finì il brandy, il sonno le impediva quasi di tenere gli occhi aperti.

Uscì dalla vasca, aprì lo scarico e si asciugò con un soffice telo, mentre l’acqua scorreva via gorgogliando. Raccolse il coltello e uscì dal bagno, lasciando la luce accesa e la porta socchiusa. Spense le luci della stanza. Muovendosi languidamente nel morbido scintillio e fra le ombre vellutate, appoggiò il coltello sul comodino e scivolò nuda nel letto.

Si sentiva rilassata, come se il calore le avesse ammorbidito le giunture.

Era anche stordita. Effetto del brandy.

Si sdraiò con il viso rivolto verso il cassettone. La barricata era rassicurante. Sembrava solida, impenetrabile. Bruno Frye non sarebbe riuscito a entrare, si disse Hilary. Nemmeno colpendo la porta con la forza di un ariete. Persino un piccolo esercito avrebbe avuto difficoltà a buttarla giù. Neanche un carro armato ce l’avrebbe fatta. E un vecchio, immenso dinosauro? si domandò assonnata. Uno di quei tirannosauri che comparivano nei film comici sui mostri. Godzilla. Godzilla sarebbe forse riuscito a sfondare quella porta…?

Giovedì mattina, alle due, Hilary si addormentò.

Giovedì mattina alle due e venticinque, Bruno Frye passò lentamente davanti alla casa di Hilary. La nebbia si era spostata verso Westwood, ma non era fitta come nei pressi dell’oceano. Riusciva a vedere la casa abbastanza chiaramente e si rese conto che nessuna luce brillava oltre le finestre. Proseguì per due isolati, girò il furgoncino e passò nuovamente davanti alla casa, questa volta persino più lentamente, studiando con attenzione le macchine parcheggiate lungo la strada. Era convinto che i piedipiatti non avrebbero lasciato un uomo a proteggerla, ma non voleva correre rischi. Le macchine erano vuote: non c’era sorveglianza.

Parcheggiò il Dodge fra due Volvo, un paio di isolati più in là, e tornò a piedi verso la casa, attraverso l’oscurità nebbiosa e gli aloni di luce giallognola proiettati dai lampioni.

Attraversando il prato, le scarpe affondarono nell’erba bagnata di rugiada, emettendo un suono che gli ricordò quanto fosse eterea la notte.

Si accovacciò vicino a un cespuglio di oleandro e si guardò alle spalle. Non era scattato alcun allarme. Nessuno lo aveva notato.

Proseguì verso il retro e scavalcò il cancello. Seguì con gli occhi il muro e vide un piccolo quadretto di luce al secondo piano. A giudicare dalle dimensioni, doveva essere la finestra del bagno; la vetrata più a destra lasciava intravedere leggeri tremolii di luce ai bordi delle tende.

Lei era là.

Ne era sicuro.

Avvertiva la sua presenza. Ne sentiva l’odore.

La puttana.

Aspettava di essere presa e usata.

Aspettava di essere uccisa.

Vuole forse uccidermi? si domandò.

Rabbrividì. La voleva, si sentiva eccitato, ma allo stesso tempo ne aveva paura.

Fino ad allora, era sempre morta con facilità. Si era sempre reincarnata in un nuovo corpo, nascosta dietro un altro viso, ma era sempre morta senza lottare. Quella sera, invece, Katherine era stata una vera tigre, incredibilmente forte, lucida e impavida. Era una condizione nuova e non gli piaceva.

Ciononostante, doveva tornare da lei. Se non l’avesse seguita da un’incarnazione all’altra, se non avesse continuato a ucciderla fino a quando non fosse più rinata, non avrebbe mai trovato la pace.

Non cercò di aprire la porta della cucina con le chiavi che aveva rubato dalla borsa di Hilary il giorno in cui era andata da lui. Probabilmente aveva fatto montare una nuova serratura. E anche se la donna non avesse preso queste precauzioni, non sarebbe riuscito comunque a entrare. Martedì sera, la prima volta che aveva cercato di introdursi in casa, la donna era là e lui aveva scoperto che era impossibile aprire la serratura con la chiave se era stata bloccata dall’interno. Quella superiore era scattata senza problemi, ma quella inferiore si poteva aprire solo se veniva chiusa dall’esterno, con una chiave. Così aveva dovuto rinunciarci e tornare la sera successiva, mercoledì, otto ore prima, mentre lei era fuori a cena ed entrambe le chiavi erano utilizzabili. Ma ora lei c’era, e anche se non aveva cambiato la serratura, aveva sicuramente fatto scattare dall’interno uno di quei chiavistelli speciali, impedendo così l’ingresso, indipendentemente dal tipo di chiave.