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Si diresse verso l’angolo della casa, vicino a una grande finestra che si affacciava sul giardino. Era divisa in pannelli di vetro da sottili strisce scure di legno laccato. Dall’altra parte si intravedeva lo studio tappezzato di libri. Estrasse una torcia dalla tasca, l’accese e diresse il fascio di luce contro la finestra. Socchiudendo gli occhi, cercò la sporgenza del davanzale e la sbarra orizzontale centrale, finché localizzò la serratura, poi spense la torcia. Aveva un rotolo di nastro adesivo gommato e cominciò a strapparne alcune strisce, ricoprendo il piccolo pannello di vetro più vicino alla serratura. Quando il quadrato fu completamente coperto, sferrò un unico colpo deciso con la mano guantata per frantumarlo. Il vetro si ruppe quasi senza rumore rimanendo attaccato al nastro. Frye fece scivolare dentro la mano e aprì la finestra, la sollevò e si introdusse nello studio. Evitò per un pelo di fare un frastuono infernale andando a sbattere contro un tavolino.

In piedi, al centro della stanza, con il cuore che martellava, Frye tese l’orecchio per avvertire eventuali rumori all’interno della casa.

Regnava il silenzio.

Lei era in grado di risorgere dal regno dei morti e di incarnarsi in un’altra persona, ma evidentemente quello era il limite dei suoi poteri soprannaturali. Ovviamente non poteva vedere e sapere tutto. Era in casa sua, ma lei non lo sapeva ancora.

Sogghignò.

Con la mano destra estrasse il coltello dal fodero fissato alla cintura.

Con la pila nella mano sinistra, scivolò silenziosamente attraverso tutte le stanze del pianterreno. Erano buie e deserte.

Salendo le scale che conducevano al primo piano, si mantenne rasente al muro, nel caso i gradini scricchiolassero. Raggiunse il pianerottolo senza fare il benché minimo rumore.

Esplorò le camere da letto, ma non trovò niente di interessante finché non si avvicinò all’ultima stanza sulla sinistra. Gli sembrò di notare una luce filtrare da sotto la porta e spense la pila. Nel corridoio buio quella debole luce argentata era sufficiente a renderla visibile. Si diresse verso la porta e girò lentamente il pomello. Chiusa.

L’aveva trovata.

Katherine.

Che si faceva passare per una certa Hilary Thomas.

La puttana. La sporca puttana.

Katherine, Katherine, Katherine…

Mentre quel nome gli riecheggiava nella mente, strinse la mano attorno al coltello e lo agitò con piccoli movimenti decisi, come se la stesse accoltellando.

Allungandosi per terra con il viso a livello del pavimento, Frye guardò attraverso lo spiraglio sotto la porta. Un mobile, forse un cassettone, era stato spinto contro la porta all’interno della stanza. Qualche debole raggio di luce, proveniente da un punto imprecisato sulla destra, riusciva comunque a filtrare sotto l’uscio.

Frye era deliziato da quel poco che riusciva a vedere e si sentì invadere da un’ondata di ottimismo. Si era barricata dentro e questo significava che quella sporca puttana aveva paura di lui. Lei aveva paura di lui. Anche se sapeva come resuscitare dalla tomba, aveva paura di morire. O forse sapeva o avvertiva che questa volta non sarebbe più riuscita a tornare in vita. Sarebbe stato maledettamente preciso nel sistemare il cadavere, molto più scrupoloso di quando si era occupato degli altri corpi di donna, di cui lei aveva assunto le fattezze. Le avrebbe strappato il cuore. Glielo avrebbe trafitto con un paletto di legno. Le avrebbe tagliato la testa. Riempito la bocca di aglio. Aveva anche l’intenzione di portarsi via la testa e il cuore, quando se ne fosse andato. Avrebbe sepolto quei macabri trofei in tombe separate, nel terreno consacrato di due cimiteri diversi, lontano dal resto del corpo. Apparentemente, lei si rendeva conto che questa volta intendeva prendere particolari precauzioni, perché gli stava resistendo con una furia e una fermezza mai mostrate prima.

Nella stanza regnava il silenzio.

Stava dormendo?

No, decise. Era troppo spaventata per poter dormire. Probabilmente era seduta sul letto con la pistola in mano.

Se l’immaginò come un topo che si nasconde per sfuggire al gatto: si sentì forte, potente come una forza della natura. Sentiva l’odio ribollirgli dentro. Voleva che si agitasse e tremasse per la paura, come aveva fatto lui per tanti anni. Improvvisamente, provò l’impulso di gridare: voleva urlare il suo nome, Katherine, Katherine… e maledirla. Riuscì a controllarsi solo con un enorme sforzo che gli imperlò la fronte di sudore e gli riempì gli occhi di lacrime.

Si alzò e rimase immobile al buio, considerando le diverse alternative. Avrebbe potuto scagliarsi contro la porta, buttarla giù e spostare il mobile, ma sarebbe stato un suicidio. Non sarebbe riuscito a eliminare la barricata abbastanza velocemente da coglierla di sorpresa. Lei avrebbe avuto tutto il tempo di prendere la mira e scaricargli in corpo una dozzina di proiettili. L’altra alternativa era aspettare che lei uscisse. Se fosse rimasto nel corridoio e non avesse fatto rumore per tutta la notte, con il passare delle ore lei avrebbe abbassato la guardia. Al mattino avrebbe pensato che ormai era salva e che lui non sarebbe tornato mai più. Quando fosse uscita dalla stanza, l’avrebbe afferrata e trascinata sul letto prima ancora che lei si rendesse conto di quello che stava succedendo.

Frye attraversò il corridoio e si sedette sul pavimento, con la schiena appoggiata alla parete.

Dopo pochi minuti, cominciò a sentire dei fruscii, dei leggeri passi frettolosi nel buio.

È solo la mia immaginazione, si disse. Quella paura a lui tanto familiare.

Ma, improvvisamente, sentì qualcosa che gli strisciava sulla gamba, sotto i pantaloni.

Non c’è niente, cercò di convincersi.

Qualcosa di orribile e non identificabile gli scivolò sotto la manica e si arrampicò sul braccio mentre qualcosa di piccolo e mortale gli correva sulla spalla fino al collo. Si dirigeva verso la bocca. Serrò le labbra. La cosa proseguì verso gli occhi. Strinse gli occhi. Continuò verso le narici e Frye si passò freneticamente la mano sul viso: non riuscì a trovarla, non riuscì a scacciarla. No!

Accese la torcia. Era l’unica creatura vivente nel corridoio. Non c’era niente che si muovesse sotto i pantaloni. Niente nelle maniche. Niente sul viso.

Fu scosso dai brividi.

Lasciò la torcia accesa.

Giovedì mattina alle nove, Hilary fu svegliata dal telefono. C’era un apparecchio nella stanza degli ospiti. Il volume della suoneria era stato messo per sbaglio al massimo, probabilmente da qualcuno dell’impresa di pulizie che chiamava di tanto in tanto. L’improvviso suono acuto e stridente interruppe il sonno di Hilary che si ritrovò seduta sul letto.

Era Wally Topelis. Mentre faceva colazione, aveva letto sul giornale l’articolo relativo all’aggressione. Era sconvolto e preoccupato.

Prima di aggiungere qualcosa a quanto riportato dal giornale, gli chiese di leggerle l’articolo. Fu contenta di sentire che si trattava di un articoletto di poche righe in sesta pagina, con una fotografia minuscola. Era interamente basato sulle scarne informazioni che lei e il tenente Clemenza avevano fornito ai giornalisti la notte prima. Non si faceva alcun accenno a Bruno Frye, o all’investigatore Frank Howard che la considerava una bugiarda. La stampa era arrivata e se n’era andata giusto in tempo per perdere i particolari succosi che avrebbero permesso all’intera vicenda di finire in una delle prime pagine.