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Cercò di gridare. Non ci riuscì.

Udì i sussurri.

No!

Le viscere si lasciarono andare.

I sussurri si trasformarono in un rabbioso coro sibilante e lo trascinarono via come un grande fiume oscuro.

Giovedì mattina, Tony Clemenza e Frank Howard localizzarono Jilly Jenkins, una vecchia amica di Bobby «Angelo» Valdez. Jilly aveva incontrato il violentatore e assassino con il viso infantile in luglio, ma da allora non ne aveva più sentito parlare. A quell’epoca, Bobby aveva appena lasciato un lavoro alla Lavanderia Vee Vee Gee sull’Olympic Boulevard. Jilly non sapeva nient’altro.

Vee Vee Gee era un grande edificio a un solo piano che risaliva all’inizio degli anni Cinquanta, dove un’intera squadra di architetti un po’ pazzoidi aveva cercato di affiancare un surrogato di gusto spagnolo a un design puramente funzionale. Tony non era mai riuscito a capire come un architetto, per quanto dotato di scarsa sensibilità, potesse cogliere la bellezza in un incrocio così grottesco. Il tetto con le tegole rosso arancio era costellato da decine di comignoli di mattoni e tubi di sfiato in metallo: da almeno metà delle aperture si levavano nuvole di fumo. Gli stipiti delle finestre erano costruiti in legno scuro e massiccio, come se fosse stata la casa di qualche ricco e potente terrateniente, ma le orribili vetrate da quattro soldi erano coperte di ragnatele. Al posto della veranda c’erano alcune stazioni di carico. I muri erano perpendicolari, gli angoli aguzzi e l’intero edificio ricordava una scatola, praticamente l’opposto delle arcate leggiadre e degli spigoli arrotondati delle costruzioni in autentico stile spagnolo. Quel luogo ricordava una vecchia puttana che indossa abiti di classe, nel disperato tentativo di farsi passare per una signora.

«Perché l’hanno fatto?» chiese Tony scendendo dalla macchina della polizia e chiudendo la portiera.

«Fatto che cosa?» replicò Frank.

«Perché hanno costruito tutti questi edifici disgustosi? A che cosa servono?»

Frank strizzò gli occhi. «Che cosa c’è di tanto disgustoso?»

«Non ti dà fastidio?»

«E una lavanderia. Non abbiamo forse bisogno di lavanderie?»

«Mai avuto un architetto in famiglia?»

«Un architetto? No,» rispose Frank. «Perché me lo chiedi?»

«Semplice curiosità.»

«Sai una cosa? A volte non si capisce un accidente quando parli.»

«Me l’hanno già detto,» replicò Tony.

Quando entrarono nell’ufficio e chiesero di parlare con il proprietario, Vincent Garamalkis, ricevettero un’accoglienza a dir poco glaciale. La segretaria era decisamente ostile. La Lavanderia Vee Vee Gee aveva pagato quattro multe nel corso degli ultimi quattro anni per aver assunto stranieri privi di regolari documenti. La segretaria era convinta che Tony e Frank fossero agenti del Servizio Immigrazione. Divenne leggermente più cordiale quando vide il distintivo della polizia di Los Angeles, ma si decise a collaborare solo quando Tony la convinse che non avevano il benché minimo interesse nella nazionalità delle persone che lavoravano alla Vee Vee Gee. Alla fine, seppure riluttante, ammise che Mr Garamalkis era nei dintorni. Stava per accompagnarli da lui quando il telefono squillò e dovette fornire poche, rapide istruzioni, invitandoli a rintracciarlo da soli.

L’enorme stanzone della lavanderia sapeva di sapone, candeggina e vapore. Era un posto umido, caldo e rumoroso. Le enormi lavatrici industriali sbattevano, ronzavano e si agitavano mentre i giganteschi essiccatori giravano e borbottavano senza sosta. Il suono secco e il sibilo delle stiratrici automatiche innervosirono Tony. La maggior parte degli operai che scaricavano i cestelli, quelli che riempivano le macchine e le donne che contrassegnavano la biancheria disposta su lunghi tavoli parlavano in spagnolo e ad alta voce. Mentre Tony e Frank attraversavano il locale da un capo all’altro, il rumore diminuì poiché gli operai smisero di parlare e li osservarono con aria sospetta.

Vincent Garamalkis era seduto in fondo alla stanza. La scrivania sgangherata era appoggiata su una piattaforma di circa un metro, in modo che il padrone potesse sorvegliare i propri operai. Garamalkis si alzò e si avvicinò al bordo della piattaforma quando li vide arrivare. Era un uomo basso e tarchiato, calvo, con i lineamenti duri e gli occhi color nocciola incredibilmente gentili che contrastavano con il resto del viso. Si bloccò con le mani sui fianchi, come se volesse sfidarli a raggiungerlo.

«Polizia,» esclamò Frank, mostrando il distintivo.

«Sì,» bofonchiò Garamalkis.

«Non siamo dell’Immigrazione,» lo rassicurò Tony.

«Perché dovrei aver paura dell’Immigrazione?» chiese Garamalkis in tono di difesa.

«La sua segretaria ne aveva,» proseguì Frank.

Garamalkis li guardò di traverso. «Io sono pulito. Assumo soltanto cittadini degli Stati Uniti o stranieri con regolare permesso.»

«Oh, certo,» esclamò Frank in tono sarcastico. «Com’è vero che gli orsi non cagano più nei boschi.»

«Senta,» intervenne Tony, «a noi non interessa proprio da dove vengono i suoi operai.»

«E allora che cosa volete?»

«Vorremmo rivolgerle qualche domanda.»

«A proposito di che cosa?»

«Di quest’uomo,» spiegò Frank allungando le tre foto segnaletiche di Bobby Valdez.

Garamalkis le osservò per un attimo. «Che cosa volete sapere?»

«Lo conosce?»

«Perché?»

«Vorremmo rintracciarlo.»

«Per che cosa?»

«È scappato.»

«Che cos’ha fatto?»

«Senta,» sbottò Frank, stanco del tono arrogante dell’uomo, «posso renderle tutto molto semplice o molto complicato. Può rispondere qui oppure in città. E se vuole giocare a fare il duro, possiamo chiamare il Servizio Immigrazione. Non ce ne frega veramente un cazzo se lei assume un mucchio di messicani, ma nel caso in cui non volesse collaborare con noi, faremo in modo che passino tutto al setaccio. Mi sono spiegato? È tutto chiaro?»

Intervenne Tony. «Mr Garamalkis, mio padre era un emigrante italiano. È giunto in questo paese con tutti i documenti in regola e alla fine è diventato cittadino americano. Un giorno ha avuto qualche problema con gli agenti del Servizio Immigrazione. Una stupidaggine a livello burocratico. Ma lo hanno perseguitato per più di cinque settimane. Lo chiamavano continuamente al lavoro e venivano a trovarci a casa alle ore più strane. Hanno chiesto una valanga di carte e documenti, ma quando mio padre li ha procurati, hanno affermato che erano falsi. Ci sono state anche delle minacce. Molte minacce. Gli hanno anche dato il foglio di via prima che tutto fosse chiarito. Ha dovuto rivolgersi a un avvocato anche se non poteva permetterselo e mia madre è quasi impazzita. Quindi si renderà conto che quelli del Servizio Immigrazione non mi sono simpatici. Non muoverei un dito per metterli contro di lei. Non muoverei neppure un fottutissimo dito, Mr Garamalkis. »

L’uomo osservò Tony per un attimo, poi scosse la testa e sospirò: «Non vi fanno incazzare? Voglio dire, un paio di anni fa, quando gli studenti iraniani hanno iniziato a fare casino qui a Los Angeles, rovesciando le automobili e cercando di incendiare le case, forse quei dannati agenti del Servizio Immigrazione hanno pensato almeno per un attimo di cacciarli a pedate nel culo dal nostro paese? Diamine, no! Gli agenti erano troppo occupati a rompere le scatole ai miei operai. Eppure le persone che assumo non distruggono le case degli altri. Non rovesciano le macchine e non lanciano pietre ai poliziotti. Sono bravi e onesti lavoratori. Vogliono solo guadagnarsi da vivere, ed è qualcosa che non possono fare al di là del confine. Sapete perché l’Immigrazione passa il suo tempo a dar loro la caccia? Ora ve lo spiego. Credo di averlo capito. E solo perché i messicani non si ribellano. Non sono fanatici politici o religiosi come la maggior parte degli iraniani. Non sono pazzi e nemmeno pericolosi. E per l’Immigrazione è dannatamente più facile e più sicuro prendersela con questa gente che in genere se ne va senza troppe storie. Ah, questo dannato sistema fa veramente schifo.»