«Ne hai venduto qualcuno?»
«Non dipingo i quadri per venderli.»
«E allora perché lo fai?»
«Per me stesso.»
«Mi piacerebbe vedere alcune delle tue opere.»
«Il mio museo osserva degli strani orari, ma sono sicuro che possiamo organizzare una visita.»
«Museo?»
«Il mio appartamento. Non ci sono molti mobili, ma è pieno di quadri.»
Penny arrivò con le ordinazioni.
Rimasero senza parlare per un attimo, poi discussero un po’ di Bobby Valdez e ripiombarono nel silenzio.
Nel bar c’erano circa sedici, diciassette persone e molte di loro avevano già ordinato dei panini. L’aria era impregnata del delizioso profumo del manzo affumicato e delle cipolle affettate.
Alla fine, Frank mormorò: «Immagino ti stia chiedendo perché siamo qui.»
«Per bere qualcosa.»
«C’è dell’altro.» Frank mescolò lo scotch con un bastoncino da cocktail. I cubetti di ghiaccio produssero un rumore sordo. «Ci sono un paio di cose che vorrei dirti.»
«Pensavo ne avessimo già parlato questa mattina, in macchina, dopo essere andati alla Vee Vee Gee.»
«Dimentica quello che ho detto.»
«Avevi il diritto di lamentarti.»
«Ero solo incazzato,» sbottò Frank.
«No, forse avevi ragione.»
«Te l’ho già detto, ero incazzato.»
«Va bene,» concesse Tony. «Eri incazzato.»
Frank sorrise. «Avresti potuto discutere con me un po’ di più.»
«Quando uno ha ragione, ha ragione.»
«Mi ero sbagliato su quella Thomas.»
«Ti sei già scusato con lei, Frank.»
«Sento il dovere di scusarmi anche con te.»
«Non ce n’è bisogno.»
«Ma tu hai notato qualcosa, hai capito che stava dicendo la verità. A me non è neppure passato per l’anticamera del cervello. Ero su una pista completamente sbagliata. Diamine, mi ci hai fatto sbattere il naso contro e non me ne sono nemmeno accorto.»
«Be’, restando in tema di nasi, probabilmente non hai fiutato la pista giusta perché il tuo naso era fuori fase.»
Frank annuì con aria triste. La sua faccia larga assomigliava al viso malinconico di un cane bastonato. «È colpa di Wilma. Il mio naso è fuori fase per colpa di Wilma.»
«La tua ex moglie?»
«Già. Questa mattina hai colpito nel segno quando hai detto che sto iniziando a odiare le donne.»
«Deve averti fatto qualcosa di terribile.»
«Non importa quello che mi ha fatto,» mormorò Frank. «Non è un buon motivo per ridurmi in questo stato.»
«Hai ragione.»
«Voglio dire, non è possibile sfuggire alle donne, Tony.»
«Ce ne sono dappertutto,» ammise Tony.
«Cristo, sai da quanto tempo non vado a letto con una donna?»
«No.»
«Da dieci mesi. Da quando mi ha lasciato, quattro mesi prima del divorzio.»
Tony non sapeva che cosa dire. Non conosceva Frank sufficientemente bene per intavolare una discussione sulla sua vita sessuale, ma era ovvio che quell’uomo aveva un disperato bisogno di qualcuno che lo ascoltasse e lo aiutasse.
«Se non mi ributto nel giro un po’ in fretta, tanto vale che mi faccia prete.»
Tony annuì. «Certo che dieci mesi sono lunghi,» bofonchiò in tono goffo.
Frank non rispose. Lasciò vagare lo sguardo sullo scotch come se fosse stata una boccia di cristallo in grado di predire il futuro. Era chiaro che voleva parlare di Wilma, del divorzio e di ciò che sarebbe stato di lui, ma non se la sentiva di obbligare Tony ad ascoltare i suoi guai. Era molto orgoglioso. Voleva essere adulato, lusingato e invitato a parlare con domande discrete e velate.
«Wilma ha forse trovato un altro uomo?» si informò Tony, rendendosi conto di essere andato al nocciolo della questione un po’ troppo rapidamente.
Frank non era ancora pronto a parlare di quell’argomento e finse di non sentire nemmeno la domanda. «Quello che mi scoccia è che inizio a fare troppe cazzate sul lavoro. Sono sempre stato dannatamente in gamba. Quasi perfetto, direi. Fino al divorzio. Poi sono diventato acido con le donne e subito dopo anche con il mio lavoro.» Bevve un lungo sorso di scotch. «E che cosa diamine sta succedendo con quel dannato sceriffo di Napa County? Perché ha mentito per proteggere Bruno Frye?»
«Prima o poi lo scopriremo,» lo tranquillizzò Tony.
«Vuoi qualcos’altro da bere?»
«Va bene.»
Tony si rese conto che sarebbero rimasti a The Bolt Hole per parecchio tempo. Frank voleva parlare di Wilma, voleva liberarsi di tutto il veleno che si era formato dentro di lui e che lo stava divorando da circa un anno, ma sarebbe riuscito a farlo solo molto, molto lentamente.
Per la Morte a Los Angeles quella fu una giornata caotica. Si erano verificate molte morti dovute a cause naturali e di conseguenza non sempre fu necessario ricorrere al bisturi affilato del medico legale. Ma l’ufficio del coroner aveva ben nove casi di cui occuparsi. C’erano state due vittime in un incidente stradale che sicuramente avrebbero richiesto una spiegazione. Due uomini erano morti per ferite di arma da fuoco. Un bambino era stato apparentemente percosso a morte dal padre violento e alcolizzato. Una donna era annegata nella sua piscina e due giovani erano stati stroncati da una probabile overdose. Poi c’era Bruno Frye.
Giovedì sera, alle 19.10, sperando di recuperare il lavoro arretrato, un patologo dell’obitorio cittadino portò a termine un’autopsia parziale sul corpo di Bruno Gunther Frye, di sesso maschile, di origine caucasica, circa quarant’anni di età. Il medico non ritenne necessario sezionare il cadavere a eccezione della zona addominale, poiché si rese immediatamente conto che la morte era stata causata solo ed esclusivamente dalle due ferite inferte in tale punto. La ferita superiore non era grave: il coltello aveva lacerato il tessuto muscolare e sfiorato un polmone. La seconda ferita aveva compiuto un vero scempio: la lama aveva squarciato lo stomaco, perforando, fra l’altro, il piloro e il pancreas. La vittima era deceduta per una forte emorragia interna.
Il patologo ricucì le incisioni e le due ferite incrostate. Ripulì l’addome e il torace dalle tracce di sangue e bile e dai frammenti di tessuto.
Il morto fu trasferito dal tavolo dell’autopsia alla barella. Un inserviente lo portò nella cella frigorifera, dove gli altri cadaveri, già sezionati, esaminati e ricuciti, attendevano pazientemente di essere sepolti con una solenne cerimonia.
Quando l’inserviente se ne andò, Bruno Frye rimase immobile e in silenzio, felice di essere in compagnia di altri morti. Non aveva mai apprezzato con altrettanta gioia la compagnia degli esseri viventi.
Frank Howard si stava ubriacando. Si era già tolto la giacca e la cravatta e si era aperto i primi due bottoni della camicia. Continuava a passarsi le dita fra i capelli, ormai completamente arruffati. Aveva gli occhi iniettati di sangue e la faccia gonfia. Parlava biascicando le parole, di tanto in tanto si incantava come un disco rovinato e Tony doveva dargli un colpetto esattamente come si fa con la puntina del giradischi. Per ogni birra che Tony beveva, lui si scolava due bicchieri di scotch.
E più beveva, più parlava delle donne della sua vita, più si avvicinava al fradiciume totale, più si focalizzava sul punto più doloroso della sua vita: la perdita di due mogli.
Era stato durante il secondo anno come agente in uniforme presso la polizia di Los Angeles che Frank aveva conosciuto la sua prima moglie, Barbara Ann. Faceva la commessa al reparto gioielleria di un grande magazzino del centro e lo aveva aiutato a scegliere un regalo per la madre. Era stata talmente affascinante, talmente carina, talmente gentile con quei suoi occhioni scuri che non aveva saputo resistere alla tentazione di chiederle di uscire con lui, pur aspettandosi un rifiuto. Invece lei aveva accettato. Sette mesi dopo si erano sposati. Barbara Ann era una pianificatrice: già mesi prima del matrimonio aveva stilato un’agenda dettagliata con i programmi per i primi quattro anni di vita coniugale. Lei avrebbe continuato a lavorare al grande magazzino, ma i suoi guadagni non dovevano assolutamente essere spesi. I suoi soldi sarebbero stati destinati a un libretto di risparmio che avrebbe assicurato il pagamento di una caparra nell’acquisto di una casa. Avrebbero dovuto vivere con il minimo necessario, prelevato dallo stipendio di Frank, in un monolocale piccolo, sicuro e pulito. Avrebbero venduto la Pontiac perché consumava troppo: Barbara Ann poteva andare a piedi al lavoro e lui si sarebbe recato alla Centrale con la Volkswagen della moglie. Aveva persino programmato un menù quotidiano per i primi sei mesi: piatti nutrienti e dal costo contenuto. Frank adorava quell’atteggiamento da severa contabile, che tanto contrastava con il suo carattere. Barbara Ann era una donna serena e cordiale, pronta alla risata, a volte persino frivola e impulsiva, quando non si trattava di questioni finanziarie. Era una meravigliosa compagna di letto, sempre disposta a fare l’amore e se la cavava maledettamente bene. Davanti alla carne, non era più una contabile: non programmava i rapporti, che in genere erano spontanei e passionali. Però aveva programmato l’acquisto di una casa, realizzabile solo quando fossero riusciti ad avere almeno il quaranta per cento del prezzo richiesto. Sapeva già anche quante stanze doveva avere, quale metratura cercare: aveva disegnato uno schizzò del pianterreno della sua casa ideale che teneva in un cassetto e che solo saltuariamente guardava, per sognare a occhi aperti. Aveva una gran voglia di avere dei figli, ma quel desiderio non era realizzabile finché non si fossero stabiliti al sicuro nella nuova casa. Barbara Ann aveva praticamente pensato a ogni eventualità, eccetto il cancro. Aveva contratto una forma di tumore virale, diagnosticato due anni e due giorni dopo il matrimonio. Tre mesi dopo era già morta.