Il terzo uomo era Joshua Rhinehart, avvocato di Frye e suo esecutore testamentario. Sessantenne, aveva l’aspetto giusto per intraprendere con successo la carriera diplomatica o politica. La ricca chioma pettinata all’indietro non era bianca, né giallastra, ma quasi argentata. La fronte era spaziosa, il naso importante, la mascella squadrata. Gli occhietti marroni erano limpidi e vivaci.
Il corpo di Bruno Frye venne trasferito dall’aereo al carro funebre che l’avrebbe portato a St. Helena. Joshua Rhinehart lo seguì con la sua auto privata.
Joshua Rhinehart non si era recato a Santa Rosa con Avril Tannerton per affari o per obblighi di tipo personale. Erano anni che si occupava della Shade Tree Vineyards, la società che da generazioni apparteneva alla famiglia di Frye, ma ormai non aveva più bisogno della rendita derivante da quella attività, che era diventata sempre più onerosa. Aveva continuato a occuparsi degli affari della famiglia di Frye soprattutto in ricordo dei tempi in cui aveva dovuto lottare per mettere in piedi uno studio professionale nel bel mezzo della campagna di Napa County, quando era stato aiutato dalla decisione di Katherine Frye di affidare a lui tutti gli affari di famiglia. Il giorno prima, quando era venuto a sapere della morte di Bruno, non aveva provato alcun dolore. Né Katherine, né il figlio adottivo avevano mai ispirato il suo affetto e, del resto, nemmeno loro avevano mai incoraggiato il nascere di un rapporto di amicizia.
Joshua aveva accompagnato Avril Tannerton all’aeroporto di Santa Rosa solo perché voleva occuparsi di persona dell’arrivo della salma, nel caso in cui fosse intervenuta la stampa a provocare qualche carosello sull’accaduto. Anche se Bruno era stato un tipo instabile, malato e forse persino malvagio, Joshua aveva tutte le intenzioni di organizzare per lui un funerale dignitoso. Sentiva di dovergli almeno questo. Inoltre Joshua era sempre stato un accanito promotore e sostenitore della Napa Valley, di cui aveva sempre difeso la qualità della vita e la squisitezza del vino. Non voleva che l’intera comunità venisse macchiata dalle gesta criminali di un unico uomo.
Fortunatamente, all’aeroporto non si presentò neppure un giornalista.
Ripresero in direzione di St. Helena, fra le ombre del crepuscolo e la luce sempre più fioca. Attraversarono la parte meridionale della Sonoma Valley, sbucarono nella Napa Valley e poi proseguirono verso nord, verso la sera incipiente. Al seguito del carro funebre, Joshua ebbe la possibilità di ammirare la campagna circostante, un panorama che da trentacinque anni lo colmava di gioia. Le creste delle montagne erano coperte di pini, abeti e betulle, illuminati dal sole calante e ormai quasi scomparsi dalla vista. Le pareti rocciose erano bastioni veri e propri, capaci di arginare la corruzione di un mondo esterno meno civile di quello che giaceva all’interno della valle. Ai piedi delle montagne, i terreni collinari erano costellati di querce scure e ricoperti di prati ormai inariditi che, alla luce del giorno, apparivano biondi e soffici come la barba del granturco. Ma il tramonto stava risucchiando tutti i colori e l’erba scintillava in ondate oscure, immersa nel declino e presa dal fluire di una dolce brezza. Oltre i confini di paesi pittoreschi, sulle colline e su gran parte della pianura, si stendevano vigneti a perdita d’occhio. Nel 1880, Robert Louis Stevenson aveva scritto di Napa Valley: «Ogni piccolo fazzoletto di terra viene messo alla prova da svariati generi di vite. Alcuni muoiono, altri si salvano, ma solo pochi diventano i migliori. E, poco per volta, vanno alla ricerca disperata del loro Clos Cougeot e Lafite… e il vino diventa poesia in bottiglia.» Ai tempi della luna di miele di Stevenson, quando cioè stava scrivendo Silverado Squatters, nella vallata c’erano solo pochi ettari di vigneti. Con l’avvento della Grande Peste, il Proibizionismo, nel 1920, gli ettari di terreno coltivati a viti da vino erano già quattromila. Ormai, i vigneti coprivano dodicimila ettari di terreno ed erano in grado di produrre frutti dolci e molto meno acidi di qualsiasi altra terra al mondo, magari anche più fertile della Sonoma Valley, che era già il doppio di Napa Valley per dimensioni. Tra i numerosissimi vigneti si incastravano le cantine e le case di campagna che un tempo erano state abbazie, monasteri o missioni in stile spagnolo. Grazie a Dio, soltanto un paio di cantine avevano optato per un aspetto industriale e, nell’insieme, spiccavano come un pugno nell’occhio. In genere l’opera dell’uomo non deturpava l’impressionante bellezza naturale di quel luogo unico e idilliaco. Sempre al seguito del carro funebre, in direzione della Forever View, Joshua osservò le luci che si accendevano dietro le finestre delle case: luci giallastre che conferivano un’atmosfera calda e familiare alla sera calante. Il vino è poesia in bottiglia, pensò Joshua, e la terra che lo genera è il più grande dei capolavori divini: la mia terra, la mia casa, come sono fortunato a essere in un posto come questo, quando al mondo ne esistono altri molto meno affascinanti e meno piacevoli in cui sarei potuto incappare.
Sarebbe stato come morire. In una bara di alluminio.
Forever View si trovava a un centinaio di metri di distanza dalla superstrada, poco più a sud di St. Helena. Era una costruzione bianca, in stile coloniale, con un vialetto d’ingresso circolare davanti al quale era stato sistemato un discretissimo cartello verde e bianco scritto a mano. Al calare della sera, si accendeva automaticamente una luce bianca che illuminava il cartello, mentre una serie di lampioni lanciava sul vialetto una pallida luce ambrata.
Non c’erano giornalisti in attesa nemmeno a Forever View. Joshua si compiacque nel constatare che la stampa di Napa Valley condivideva la sua stessa avversione nei confronti della pubblicità negativa.
Tannerton condusse il carro funebre nella parte posteriore della grande costruzione bianca. Con l’aiuto di Olmstead trasportò la bara all’interno.
Joshua andò a raggiungerli nel laboratorio.
Era stato fatto uno sforzo per conferire alla stanza un aspetto leggermente brioso. Il soffitto era stato rivestito con piastrelle fonoassorbenti elegantemente disposte. Le pareti erano verniciate di azzurro, lo stesso azzurro delle lenzuola dei neonati, lo stesso azzurro che contraddistingue la nuova vita. Tannerton sfiorò un interruttore sulla parete e nella stanza si cominciò a diffondere una musica dal ritmo ben equilibrato, niente di assordante o troppo melenso.
Comunque, agli occhi di Joshua, quel posto manteneva il sapore della morte, nonostante Avril Tannerton avesse fatto di tutto per mascherarlo. Nell’aria circolava l’aroma pungente dei liquidi per l’imbalsamazione e il profumo dolciastro dei garofani gli ricordava le corone funebri. Il pavimento era rivestito di piastrelle bianche lucenti, lavate di fresco, leggermente scivolose per chi avesse indossato scarpe con la suola di cuoio, come Joshua. Alla prima occhiata, quel pavimento lasciava un’impressione di apertura, di pulizia, ma in seguito Joshua dovette constatare la triste praticità di quel rivestimento. Era necessario che fosse impermeabile, capace di resistere agli effetti corrosivi di eventuali gocce di sangue, di bile o di altre sostanze ancor più perniciose.
I clienti di Tannerton, i parenti delle salme, non entravano mai in quella stanza, dove l’amara realtà della morte era fin troppo evidente. Nell’ala anteriore della casa, dove le camere ardenti erano decorate con tende di velluto color porpora, dove l’impianto di illuminazione era espressamente soffuso, le scritte «trapassato» o «chiamato dal Signore» potevano anche essere prese sul serio; in quegli ambienti, l’atmosfera incoraggiava la fede nel paradiso e nell’ascesa dello spirito. Ma nel laboratorio, con la puzza dei liquidi per l’imbalsamazione che indugiava nell’aria e la scintillante disposizione degli strumenti da lavoro ben allineati su vassoi smaltati, la morte appariva tristemente oggettiva e inequivocabilmente definitiva.