Mentre Joshua stava per andarsene, Tannerton disse: «Spero che fino a questo momento il mio servizio sia stato di suo gradimento e le garantisco che farò tutto quanto è in mio potere perché anche il resto fili liscio come l’olio.»
«Bene,» rispose Joshua. «Di una cosa mi ha convinto. Domani stenderò un testamento nuovo. Quando arriverà anche la mia ora, è mia intenzione essere cremato.»
Tannerton annuì. «Possiamo occuparci anche di questo.»
«Non mi faccia fretta, figliolo. Non mi faccia fretta.»
Tannerton arrossì. «Oh, non intendevo dire…»
«Lo so, lo so, si calmi.»
Tannerton si schiarì la voce, imbarazzato. «La… ehm… l’accompagno io alla porta.»
«Non ce n’è bisogno. Troverò da solo la strada.»
Fuori, erano calate le tenebre, scure e profonde. Sopra la porta di servizio c’era un’unica lampadina che illuminava l’oscurità vellutata solo per pochi metri.
Nel tardo pomeriggio si era alzata una leggera brezza che, con il calar della sera, si era trasformata in vento. L’aria era agitata e fredda: il vento sibilava e fischiava.
Joshua si diresse alla macchina, parcheggiata oltre il semicerchio di luci pallide. Mentre stava per aprire la portiera, venne colto dalla strana impressione di essere osservato. Si voltò a guardare la casa, ma alle finestre non c’era nessuno.
Qualcosa si muoveva nell’ombra, a pochi metri di distanza. Dalle parti del garage. Fu soltanto una sensazione. Joshua aguzzò la vista, che ormai non era più quella di un tempo: non riuscì a intravedere nulla nel buio della notte.
Sarà il vento, pensò. Il vento che agita i rami delle piante e i cespugli oppure che trascina via con sé un giornale abbandonato per strada.
Ma qualcosa si mosse di nuovo. E questa volta la vide. Era accucciata davanti a una fila di arbusti che fiancheggiava il garage. Non riuscì a coglierne i particolari. Era soltanto un’ombra, una macchia nera e rossastra che si stagliava sul fondo scuro della sera, impalpabile, goffa e indefinita come tutte le ombre. Ma questa si muoveva.
Sarà un cane, pensò Joshua. Un cane randagio. Oppure un ragazzino in vena di scherzi. «C’è qualcuno?» Nessuna risposta. Si scostò leggermente dall’auto.
L’ombra arretrò di qualche passo lungo la fila di arbusti. Si fermò in un punto particolarmente scuro, sempre accucciata, sempre vigile.
Non è un cane, pensò Joshua. È troppo grosso per essere un cane. Forse è un ragazzino. Forse è alle prese con qualche scherzetto. Forse ha in mente di compiere un atto vandalico.
«Chi va là?» Silenzio.
«Forza, fatti vedere.»
Nessuna risposta. Solo il sussurro del vento. Joshua si mosse verso l’ombra nascosta fra gli arbusti, ma venne immediatamente bloccato dall’improvvisa consapevolezza del pericolo che stava per correre. Un tremendo pericolo. Mortale. Di fronte a quella minaccia provò tutta la serie di possibili reazioni animali: il brivido lungo la spina dorsale, i capelli che gli si rizzavano sulla testa e il cranio che si stringeva, il cuore che iniziava a sobbalzare, la bocca che si prosciugava, le mani che si stringevano e l’udito che tutt’a un tratto si faceva più acuto che mai. Joshua s’inarcò, drizzando le possenti spalle, inconsciamente alla ricerca di una posizione di difesa. «Chi c’è?» ripetè.
L’ombra si voltò e andò a schiantarsi contro gli arbusti. Poi si precipitò nei vigneti che circondavano la proprietà di Avril Tannerton. Per qualche secondo ancora, Joshua udì il rumore che si affievoliva gradatamente, il tonfo sordo di passi che correvano e il respiro affannoso sempre più lontano. Poi il vento rimase l’unico suono nella notte.
Voltandosi un paio di volte, si diresse nuovamente alla macchina. Salì a bordo, chiuse la portiera. Con la serratura.
In quel momento, l’incontro cominciò ad assumere una sfumatura irreale, sempre più onirica. C’era veramente qualcuno nascosto nell’ombra che lo stava osservando? C’era stato veramente un pericolo oppure era stato solo frutto della sua immaginazione? Dopo aver trascorso mezz’ora nel mostruoso laboratorio di Avril Tannerton, era possibile sussultare al minimo rumore e mettersi alla ricerca di orrende creature nella notte? Mentre i muscoli si rilassavano, mentre il cuore rallentava i battiti, Joshua cominciò a pensare di essersi comportato da stupido. A posteriori, il pericolo che aveva percepito con tanta forza nell’aria assumeva il sapore della fantasia, della stravaganza dettata dalla notte e dal vento.
Al massimo, poteva essere stato un ragazzino. Un vandalo.
Mise in moto la macchina e si diresse verso casa, sorpreso e divertito dall’effetto che il laboratorio di Tannerton aveva avuto su di lui.
Sabato sera, alle sette in punto, Anthony Clemenza arrivò davanti alla casa di Hilary con la sua jeep blu.
La ragazza gli andò incontro. Indossava un morbido vestito di seta verde smeraldo con le maniche lunghe e una profonda scollatura. Erano più di quattordici mesi che non aveva un appuntamento galante e aveva quasi dimenticato qual era l’abbigliamento più adatto per il rituale del corteggiamento: aveva impiegato due ore per decidere come vestirsi e si era sentita come una liceale al suo primo appuntamento. Aveva accettato l’invito di Tony perché era l’uomo più interessante che avesse conosciuto negli ultimi tempi, ma anche perché voleva sforzarsi di vincere la sua naturale tendenza a estraniarsi dal resto del mondo. L’affermazione di Wally Topelis l’aveva colpita: Wally era convinto che lei utilizzasse la riservatezza come scusa per chiudersi nel proprio guscio e Hilary si era resa conto di quanta verità fosse racchiusa in quelle parole.
Evitava di stringere amicizie e di trovarsi degli amanti perché temeva il dolore che solo gli amici e gli amanti possono infliggere con i loro rifiuti e i loro tradimenti. Ma proteggersi dal dolore significava anche negare a se stessi il piacere della vera amicizia con persone che non l’avrebbero tradita. Dai genitori alcolizzati aveva imparato che alle manifestazioni di affetto seguivano sempre esplosioni di collera e di furia e punizioni inaspettate.
Era sempre pronta a rischiare quando si trattava di lavoro, ora era giunto il momento di affrontare anche la vita privata con lo stesso spirito d’avventura. Mentre si dirigeva verso la jeep con passo aggraziato, si sentì tesa per il coinvolgimento emotivo che quella danza a due avrebbe significato, ma nello stesso tempo si sentì attraente, giovane e felice come da tempo non le capitava.
Tony si precipitò ad aprirle la portiera. Inchinandosi davanti a lei, recitò: «La carrozza reale vi sta aspettando.»
«Oh, ci deve essere un errore. Non sono la regina.»
«Per me lo siete.»
«Sono solo una povera ragazza che lavora.»
«Siete molto più carina della regina.»
«Non fatevi sentire dalla regina! Potrebbe chiedere la vostra testa.»
«Troppo tardi.»
«Eh?»
«Ormai, l’ho già persa per voi.»
Hilary sospirò.
«Troppo mieloso?» domandò Tony.
«Dopo questa sdolcinatura, ho bisogno di un po’ di limone.»
«Ma ti è piaciuta?»
«Sì, lo ammetto. Devo essere affamata di complimenti,» affermò, salendo sulla jeep con un frusciare di seta.
Mentre si dirigevano verso il Westwood Boulevard Tony chiese: «Ti sei offesa?»
«Per che cosa?»
«Per via di questa carretta.»
. «E perché mai dovrei offendermi per una jeep? Forse parla? Forse è capace di insultarmi?»
«Non è una Mercedes.»
«Una Mercedes non è una Rolls-Royce. E una Rolls-Royce non è una Toyota.»
«Tutto questo mi puzza di filosofia Zen.»
«Se pensi che sia una snob, perché mi hai chiesto di uscire?»
«Non penso che tu sia snob,» si scusò Tony, «ma Frank sostiene che ci sentiremo imbarazzati perché tu hai più soldi di me.»