Alle tre del mattino, Joshua Rhinehart si svegliò, brontolando e lottando con le lenzuola aggrovigliate. A cena aveva bevuto un po’ troppo ed era una cosa alquanto insolita per lui. Il ronzio alle orecchie se n’era andato ma la vescica lo stava facendo impazzire. A ogni modo, non era stato solo un bisogno fisiologico a rendere agitato il suo sonno. Aveva avuto un incubo legato al laboratorio di Tannerton: molti cadaveri, copie esatte di Bruno Frye, si erano alzati dalle casse e dai tavoli d’acciaio per l’imbalsamazione. Nell’oscurità della notte si era precipitato oltre Forever View, ma quei corpi l’aveva inseguito, squarciando le tenebre per riuscire a raggiungerlo e chiamandolo più volte con la piatta voce della morte.
Joshua Rhinehart rimase sdraiato sulla schiena, al buio, con lo sguardo fisso al soffitto che non era in grado di vedere. L’unico rumore era il ticchettio quasi impercettibile della sveglia elettronica posta sul comodino.
Fino alla morte della moglie, avvenuta tre anni prima, Joshua aveva sognato ben poche volte. E non aveva mai avuto un incubo. Nemmeno uno in cinquantotto anni di vita. Ma da quando Cora se n’era andata, era cambiato tutto. Gli capitava di sognare almeno un paio di volte la settimana e molto spesso si trattava di incubi. La maggior parte delle volte aveva l’impressione di perdere qualcosa di terribilmente importante ma indescrivibile; ne derivava sempre una ricerca frenetica e senza speranze. Non aveva certo bisogno di uno psichiatra da cinquanta dollari a visita per capire che quei sogni si riferivano a Cora e alla sua morte prematura. Non aveva ancora imparato a vivere senza di lei. Forse non ci sarebbe mai riuscito. A volte gli incubi erano invece popolati da morti viventi che assumevano le sue sembianze, quasi a simboleggiare la sua stessa mortalità. Ma quella sera assomigliavano tutti in modo sorprendente a Bruno Frye.
Scese dal letto, si stirò e sbadigliò. Si trascinò fino al bagno senza nemmeno accendere la luce. Due minuti più tardi fece per ritornare a letto e si fermò davanti alla finestra. I vetri erano freddi al tatto. Fuori soffiava un forte vento che premeva sul vetro producendo un gemito quasi animalesco. La valle era silenziosa e buia, a eccezione della luce nei vigneti. In cima alle colline, in direzione nord, scorse la Shade Tree Vineyards.
Improvvisamente la sua attenzione fu attirata da un puntino bianco a sud del vigneto, una luce vaga e indistinta proveniente più o meno dalla casa di Frye. Luce nella casa di Frye? Non doveva esserci nessuno. Bruno viveva da solo. Joshua strabuzzò gli occhi, ma senza occhiali non riusciva a mettere a fuoco nulla. Era difficile dire se la luce proveniva davvero dalla casa di Frye o da una delle costruzioni sorte in mezzo alla tenuta. Continuò a fissare quel punto luccicante e si convinse sempre più che non era una vera luce: era pallida e tremolante, probabilmente solo un riflesso della luna.
Si avvicinò al comodino e cercò a tastoni gli occhiali: non voleva accendere la luce e rimanere così abbagliato. Prima di riuscire a trovarli, rovesciò il bicchiere d’acqua posto accanto alla sveglia.
Quando tornò alla finestra, la misteriosa luce sulla collina era scomparsa. Decise comunque di restare a controllare, come un vigile guardiano. Era l’esecutore testamentario di Frye ed era suo dovere ripartire i beni secondo la volontà del defunto. Se i ladri stavano svaligiando quella casa, doveva intervenire. Rimase immobile per quindici minuti, lo sguardo verso le colline, ma la luce non si riaccese.
Alla fine si convinse che la vista lo aveva ingannato e tornò a letto.
Lunedì mattina. Mentre in coppia con Tony cercava di seguire possibili indizi su Bobby Valdez, Frank riferì animatamente della serata trascorsa con Janet Yamada. Janet era talmente carina. Janet era talmente intelligente. Janet era talmente comprensiva. Janet era questo. Janet era quello. Tony non ne poteva più di Janet Yamada ma lasciò che l’amico si sfogasse a ruota libera. Era bello vedere che Frank parlava e si comportava come un qualsiasi essere umano.
Prima di mettersi in strada, Tony e Frank avevano parlato con due membri della Narcotici, gli investigatori Eddie Quevedo e Carl Hammerstein. I due avevano ipotizzato la probabilità che Bobby Valdez stesse spacciando cocaina o polvere d’angelo per poter continuare con il poco proficuo mestiere di stupratore. Sul mercato della droga di Los Angeles erano queste due sostanze, tanto illegali quanto conosciute, a rendere più soldi di qualsiasi altra. Gli spacciatori riuscivano ancora ad arricchirsi con l’eroina e l’erba, che però avevano smesso di essere gli articoli più redditizi del settore. Secondo la Narcotici, se Bobby era coinvolto nel traffico degli stupefacenti, doveva per forza essere uno spacciatore da strada, l’ultimo anello della grande catena, l’uomo che vendeva direttamente agli acquirenti. Quando era uscito di prigione in aprile era praticamente senza un centesimo e, per diventare produttore o importatore di stupefacenti, avrebbe avuto bisogno di ingenti capitali. «Dovete cercare un qualsiasi spacciatore da strapazzo,» aveva consigliato Quevedo. «Indagate per le strade.» Hammerstein aveva aggiunto: «Vi forniremo una lista di nomi e indirizzi di tutti coloro che sono stati schedati per traffico di stupefacenti. Con tutta probabilità molti sono tornati a spacciare, anche se non siamo ancora riusciti a prenderli con le mani nel sacco. Metteteli sotto pressione. Prima o poi troverete qualcuno che ha incontrato per strada Bobby o che sa dove si è nascosto.» Sulla lista di Quevedo e Hammerstein c’erano ventiquattro nomi.
I primi tre non erano in casa. Altri tre giurarono di non conoscere alcun Bobby Valdez o Juan Mazquezza: comunque nessuno che somigliasse al tizio della foto segnaletica.
Il settimo della lista era Eugene Tucker. Questa volta fecero centro, senza nemmeno dover ricorrere alle minacce.
La maggior parte dei neri ha la pelle di una sfumatura più o meno scura di marrone ma Tucker era veramente nero. Aveva il viso rotondo e liscio, nero come la pece. Gli occhi scuri erano molto più chiari della pelle. Aveva una barba riccioluta, innevata qua e là da piccoli ciuffetti candidi che, a parte il bianco degli occhi, erano l’unica cosa che spiccava in mezzo a tutto quel nero. Indossava persino camicia e calzoni neri. Era robusto, con il torace ampio, le braccia enormi e il collo largo come una trave portante. Aveva l’aria di chi spacca in due i binari della ferrovia, tanto per esercitarsi o divertirsi.
Tucker abitava sulle colline di Hollywood, in una villetta a schiera spaziosa e arredata con gusto. Nel salotto c’erano solo quattro pezzi: un divano, due sedie e un tavolino da caffè. Niente tavolo od oggetti d’arredamento. Niente stereo. Niente televisore. Non c’erano nemmeno lampade: alla sera la stanza veniva illuminava unicamente dalla lampadina che pendeva dal soffitto. Ma quegli unici pezzi erano di ottima qualità e ognuno di loro metteva in risalto l’altro. Tucker era un appassionato di antichità cinesi. Il divano e le sedie, rivestiti in tessuto verde giada, avevano la struttura in legno di palissandro lavorata a mano. Erano esemplari unici di un paio di secoli prima, incredibilmente pesanti e ben conservati. Anche il tavolino era in legno di palissandro orlato da un sottile intarsio di avorio. Tony e Frank si accomodarono sul divano, mentre Tucker si appollaiò sull’orlo della sedia di fronte.
Tony fece scorrere la mano lungo il bracciolo del divano e osservò: «Mr Tucker, è un oggetto stupendo.»
Tucker alzò un sopracciglio. «Lei se ne intende?»
«Non saprei dirne con esattezza il periodo,» rispose Tony. «Ma di arte cinese ne so quel tanto che basta per rendermi conto che questo divano non è un’imitazione acquistata in saldo ai grandi magazzini.»
Tucker scoppiò a ridere, felice che Tony avesse riconosciuto il valore del divano. «So che cosa sta pensando,» disse allegramente. «Si sta domandando come un ex galeotto, uscito di galera da soli due anni, possa permettersi tutto questo: una casa da milleduecento dollari al mese arredata con pezzi d’antiquariato cinese. Forse sospetta che abbia ripreso a spacciare eroina o chissà che altro.»