Tony scosse il capo. «Lei è una forza.»
«Non è questo,» rispose Tucker. «E solo che vivo in un posto forte in un momento forte.»
Frank teneva in mano la busta con le foto segnaletiche di Bobby «Angelo» Valdez. Se la battè sulla gamba, lanciò un’occhiata a Tony e disse: «Credo che stavolta ci siamo rivolti alla persona sbagliata.»
«Così pare.»
Tucker si sporse in avanti. «Che cosa volevate?»
Tony iniziò a parlargli di Bobby Valdez.
«Be’, non bazzico più l’ambiente di una volta,» rispose Tucker, «però non ho perso tutti i contatti. Ogni settimana, dedico una ventina di ore del mio tempo alla Self-Pride, un’associazione della città che combatte la droga. In un certo senso, credo di avere ancora qualche debito da pagare, giusto? I volontari della Self-Pride trascorrono la metà del proprio tempo a parlare con i ragazzi e l’altra metà a preparare un programma di raccolta di informazioni, una specie di telefono azzurro, sapete che cosa vuoi dire?»
«Ricevete chiamate di denuncia?» domandò Tony.
«Esatto. Esiste un numero telefonico che la gente può chiamare per sporgere denunce anonime nei confronti di eventuali spacciatori. Comunque, alla Self-Pride non aspettiamo che la gente ci chiami. Battiamo a tappeto le zone dove sappiamo che lavorano gli spacciatori. Bussiamo alle porte, parliamo con i ragazzi e con i genitori e cerchiamo di strappare ogni minima informazione. Poi apriamo un dossier per ogni spacciatore e, quando riteniamo di avere abbastanza carne sul fuoco, passiamo la pratica al dipartimento di polizia. Quindi, se questo Valdez sta spacciando, c’è qualche possibilità che io abbia informazioni sul suo conto.»
«Devo ammettere che Tony ha ragione, lei è una forza,» confermò Frank.
«No, non ho alcun bisogno di pacche amichevoli sulle spalle per il lavoro che svolgo con la Self-Pride. Non sono alla ricerca di complimenti. Ai miei tempi ho trasformato in drogati molti ragazzi che magari oggi sarebbero persone normali se non mi fossi messo sulla loro strada. Per pareggiare i conti, ci vorrà molto tempo.»
Frank prese le fotografie e le allungò a Tucker. Il negro osservò tutt’e tre le pose. «Conosco questo bastardo. E uno dei trenta su cui stiamo lavorando in questo periodo.»
Il cuore di Tony prese a battere all’impazzata.
«Ma adesso non si fa chiamare Valdez,» fece notare Tucker.
«Juan Mazquezza?»
«Nemmeno. Credo che si faccia chiamare Ortiz.»
«Sa dove possiamo trovarlo?»
Tucker si alzò. «Fatemi telefonare all’ufficio informazioni della Self-Pride. Forse loro hanno l’indirizzo.»
«Splendido,» commentò Frank.
Tucker stava per dirigersi al telefono della cucina quando si fermò di colpo e si voltò a guardarli. «Potrebbero volerci un paio di minuti. Se volete approfittarne per dare un’occhiata ai miei disegni, potete andare nello studio.» E indicò la porta che si apriva sul salotto.
«Certo,» accettò Tony. «Io li guardo volentieri.»
Insieme con Frank si diresse nello studio, ancora più vuoto del salotto. C’erano un costosissimo tavolo da disegno con una lampada, uno sgabello con il sedile imbottito, un raccoglitore a molla sul tavolo e un contenitore su rotelle per gli arnesi dell’artista. Accanto a una delle finestre posava un manichino con la testa timidamente inclinata e le braccia spalancate; ai suoi piedi giacevano pezzi di stoffa. Non c’erano scaffali, né armadietti; per terra, lungo la parete, erano allineati mucchi di schizzi e blocchi da disegno, insieme con gli attrezzi da lavoro. Era evidente che Eugene Tucker nutriva la ferma convinzione di riuscire, prima o poi, ad ammobiliare l’intera casa con pezzi di arredamento dello stesso valore di quelli del salotto. Nel frattempo, senza curarsi della scomodità, non intendeva sprecare soldi in mobili provvisori da quattro soldi.
La quintessenza dell’ottimismo californiano, pensò Tony.
A una parete erano stati appesi alcuni schizzi a matita e altri a colori, frutto dell’opera di Tucker. I suoi vestiti erano perfetti, morbidi, femminili ma non frivoli. Era dotato di un eccezionale senso del colore e del tocco, capace di rendere speciale un vestito con un dettaglio azzeccato. I disegni rivelavano chiaramente un gran talento.
A Tony risultava ancora difficile credere che quel nero grande e grosso potesse guadagnarsi da vivere disegnando vestiti da donna. Ma si rese conto di avere anche lui, come Tucker, una doppia personalità. Durante il giorno faceva il detective per la Omicidi, insensibile e indurito dalla violenza con la quale aveva imparato a convivere, ma di sera diventava un artista e si curvava sulle tele per dipingere senza sosta. In un certo senso, si sentiva molto simile a Eugene.
Mentre i due detective stavano osservando l’ultimo degli schizzi, fece ritorno Tucker. «Allora, che cosa ne dite?»
«Meravigliosi,» esclamò Tony. «Dimostra di avere un ottimo gusto per i colori e per le linee.»
«Davvero in gamba,» aggiunse Frank.
«Lo so,» ammise Tucker ridendo.
«Alla Self-Pride c’è la pratica di Valdez?» domandò Tony.
«Sì. Ma adesso si chiama Ortiz, come pensavo. Jimmy Ortiz. Dalle informazioni che siamo riusciti a raccogliere sembra che più che altro spacci polvere d’angelo. Mi rendo conto di non essere la persona più adatta a puntare un dito accusatore nei confronti di qualcuno ma, per quanto mi riguarda, chi spaccia quel genere di droga è il bastardo più pericoloso che possa esistere sul mercato. Insomma, quella polvere è un autentico veleno. Si beve le cellule cerebrali a una velocità impressionante. Non abbiamo ancora informazioni sufficienti per passare la pratica alla polizia, ma ci stiamo lavorando sopra.»
«L’indirizzo?» domandò Tony.
Tucker gli allungò un foglietto di carta sul quale aveva annotato l’indirizzo in bella scrittura. «È un elegante quartiere residenziale poco più a sud del Sunset, a un paio di isolati da La Cienega.»
«Lo troveremo,» assicurò Tony.
«A giudicare da ciò che mi avete detto,» riprese Tucker, «e da quello che siamo venuti a sapere noi alla Self-Pride, direi che questo non è il genere di criminale capace di riabilitarsi. Sarebbe meglio farlo sparire dalla circolazione per un bel po’!»
«È quello che stiamo cercando di fare,» spiegò Frank.
Tucker li riaccompagnò alla porta d’ingresso e uscì sulla veranda che offriva uno splendido panorama di Los Angeles. «Non è meraviglioso?» chiese Tucker. «Non è unico?»
«Davvero incredibile,» ammise Tony.
«È una città eccezionale,» riprese Tucker, colmo di orgoglio e affetto, come se fosse stato lui a creare quella metropoli. «Ho sentito dire che i burocrati di Washington hanno portato a termine uno studio sul trasporto di massa per Los Angeles. Intendevano farci digerire qualcuna delle loro idee, ma hanno scoperto che la costruzione di una rete ferroviaria ad alta velocità sarebbe costata qualcosa come cento miliardi di dollari, per trasportare solo il dieci per cento dei passeggeri in transito ogni giorno. Non si sono ancora resi conto dell’estensione di queste zone.» Ormai era in brodo di giuggiole, con il faccione illuminato dal piacere e le mani impegnate a gesticolare. «Non hanno ancora capito che Los Angeles significa spazio. Spazio, mobilità e libertà. Questa città ha bisogno di potersi muovere, sia fisicamente sia spiritualmente. Anche psicologicamente. A Los Angeles esiste la possibilità di fare praticamente tutto. Qui è possibile prendere in mano il proprio futuro e modellarselo su misura. E fantastico. Amo questa città. Dio, quanto la amo!»