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«Vedrai che non sarà così,» lo incoraggiò. «Scegli una mezza dozzina di quadri, fra quelli che ritieni più rappresentativi. Cercherò di fissarti un appuntamento con Wyant questo pomeriggio o al massimo domani.»

«Puoi prenderli anche subito,» rispose. «Portateli via. E quando ti capita di vedere Stevens, puoi mostrarglieli.»

«Ma sono sicura che vorrà conoscerti.»

«Se gli piace il modo in cui dipingo, allora vorrà conoscermi. E in tal caso sarò felice di andare da lui.»

«Tony, veramente…»

«Non voglio essere presente quando ti dirà che si tratta di una discreta opera da dilettante.»

«Sei impossibile.»

«Prudente.»

«Pessimista.»

«Realista.»

Non aveva tempo di esaminare le sessanta tele accatastate in soggiorno. Rimase sorpresa nello scoprire che ne aveva altre cinquanta nell’armadio, oltre a un centinaio di disegni a penna, altrettanti acquerelli e uria quantità indescrivibile di schizzi a matita. Voleva vederli tutti, ma solo quando fosse stata riposata e in grado di apprezzarli. Scelse sei delle dodici tele appese alle pareti del soggiorno. Tony l’aiutò ad avvolgere i quadri in un vecchio lenzuolo.

Tony si infilò una camicia e un paio di scarpe e l’aiutò a caricare le tele nel baule dell’automobile.

Hilary e Tony rimasero a guardarsi a lungo, senza avere il coraggio di salutarsi.

Il fascio di luce del lampione li sfiorava appena. Lui la baciò dolcemente.

La notte era fresca e silenziosa. Il cielo era pieno di stelle.

«Tra poco spunterà l’alba,» mormorò lui.

«Vuoi cantare ‘due amanti innamorati’ con me?»

«Sono stonato come una campana.»

«Non ci credo.» Si strinse a lui. «Secondo me, tu sei bravissimo a fare tutto.»

«Che sviolinata!»

«Ma è vero.»

Si diedero un ultimo bacio, poi Tony le aprì la portiera della macchina.

«Oggi non vai a lavorare?» chiese lei.

«No. Non dopo… Frank. Dovrò semplicemente andare per stendere il rapporto, ma non ci metterò più di un’ora. Mi prenderò qualche giorno di riposo. E avrò molto tempo Ubero.»

«Ti chiamo questo pomeriggio.»

«Aspetterò con ansia.»

Hilary si allontanò lungo le strade deserte. Dopo pochi isolati, lo stomaco iniziò a brontolarle per la fame. Si ricordò di non avere in casa niente per la colazione. Sarebbe dovuta andare a fare la spesa dopo l’arrivo dell’operaio del telefono, ma poi si era precipitata a casa di Tony. Svoltò a sinistra e si diresse verso un supermercato aperto ventiquattr’ore su ventiquattro per comprare uova e latte.

Tony sapeva che Hilary non avrebbe impiegato più di dieci minuti per tornare a casa, a quell’ora del mattino, ma aspettò un quarto d’ora prima di chiamarla per assicurarsi che fosse arrivata sana e salva. Il telefono sembrava fuori uso. Tony sentì solo dei suoni computerizzati, il brusio tipico delle macchine, poi qualche ticchettio, un colpo secco e il sibilo della comunicazione interrotta. Riappese, compose di nuovo il numero, facendo attenzione a ogni singola cifra, ma il telefono continuò a non dare segni di vita.

Era sicuro che il nuovo numero fosse esatto. Quando gliel’aveva dato, aveva controllato due volte per essere sicuro di scriverlo in modo corretto. E Hilary l’aveva letto da una copia dell’ordine della compagnia dei telefoni. Non era possibile che si fosse sbagliata.

Chiamò il centralino ed espose il suo problema. L’operatrice cercò di chiamare quel numero ma neppure lei riuscì a mettersi in contatto.

«Forse hanno riappeso male?» chiese Tony.

«Non sembra.»

«Che cosa può fare?»

«Riferirò che il telefono non funziona,» rispose la donna. «Se ne occuperà il servizio guasti.»

«Quando?»

«Questo numero appartiene a una persona anziana o a un invalido?»

«No.»

«Allora dovrà seguire le normali procedure,» spiegò lei. «Uno dei nostri tecnici passerà a controllarlo dopo le otto.»

«Grazie.»

Tony riappese il ricevitore. Era seduto sul bordo del letto. Osservò con aria pensosa le lenzuola sgualcite sulle quali si era distesa Hilary e fissò il foglio di carta con il nuovo numero di telefono.

Non funzionava?

Era possibile che il tecnico avesse commesso un errore nel collegare il telefono di Hilary. Era possibile, ma improbabile. Decisamente improbabile.

Improvvisamente, ripensò alle telefonate anonime che aveva ricevuto Hilary. In genere, gli uomini che si divertivano in quel modo erano deboli, inoffensivi, sessualmente poco attivi. Quasi sempre erano incapaci di stabilire una relazione normale e, di solito, erano troppo introversi e timidi per diventare qualcuno. In genere. Quasi sempre. Di solito. Ma non era possibile che quel pazzoide fosse l’unico su un milione a essere effettivamente pericoloso?

Tony si portò una mano allo stomaco. Iniziava a sentire la nausea.

Se gli allibratori di Las Vegas avessero accettato le scommesse sulle probabilità che aveva Hilary Thomas di essere la vittima di due maniaci in meno di una settimana, sarebbero state astronomiche. D’altra parte, negli anni trascorsi presso il dipartimento di polizia di Los Angeles, Tony aveva visto accadere le cose più improbabili: ormai aveva imparato ad aspettarsi anche ciò che appariva assolutamente impossibile.

Pensò a Bobby Valdez. Nudo. Che strisciava fuori di quel mobiletto. Con gli occhi spalancati. La pistola in mano.

Fuori della finestra, nel cielo ancora buio, un uccello lanciò un grido. Era un urlo acuto, che cresceva di intensità mentre l’uccello saltellava da un ramo all’altro: sembrava che fosse inseguito da qualcosa di enorme, implacabile e vorace.

Tony aveva la fronte imperlata di sudore.

Si alzò dal letto.

A casa di Hilary stava accadendo qualcosa. C’era qualcosa che non andava. Qualcosa di terribile.

Poiché Hilary si era fermata al supermercato per comprare l’occorrente per la colazione, era arrivata a casa almeno mezz’ora dopo aver lasciato l’appartamento di Tony. Era affamata e piacevolmente distrutta. Aveva un’incredibile voglia di omelette al formaggio con il prezzemolo e poi sognava una bella dormita di almeno sei ore. Era troppo stanca per mettere la Mercedes in garage, così decise di parcheggiarla sul vialetto d’ingresso.

I nebulizzatori automatici dell’impianto di irrigazione spruzzavano l’acqua sull’erba emettendo un leggero sibilo. Una brezza gentile faceva frusciare le fronde delle palme.

Entrò in casa dall’ingresso principale. Il salotto era immerso nel buio ma, prima di uscire, era stata previdente e aveva lasciato accesa la luce dell’ingresso. Con la borsa della spesa in una mano, chiuse a doppia mandata la porta.

Accese la luce del salotto e impiegò qualche secondo per rendersi conto che la stanza era stata completamente distrutta. Gli abat jour erano in frantumi, con le stoffe a brandelli. La vetrinetta era ridotta in mille pezzi così come le preziose porcellane che conteneva; i frammenti di quelli che un tempo erano stati splendidi oggetti d’arte erano sparsi sul caminetto e per terra. Il divano e la poltrona erano stati squarciati e la stanza era piena di pezzi di gommapiuma e batuffoli di cotone. Due sedie erano ormai ridotte a un semplice ammasso di legno dopo essere state probabilmente scagliate più volte contro il muro. L’intonaco cadeva a pezzi. Le gambe del tavolinetto antico erano spezzate; tutti i cassetti erano stati tolti e sfondati. I quadri non erano stati spostati ma erano tagliati in più punti. La cenere era stata tolta dal camino e sparsa sullo stupendo tappeto Edward Fields. Non si era salvato niente: persino il parafuoco era stato distrutto e tutte le piante erano state strappate dai vasi e fatte in mille pezzi.

Passato lo stupore e lo choc iniziali, Hilary venne sopraffatta da una rabbia furiosa nei confronti dei vandali. «Figli di puttana,» mormorò fra i denti.