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Aveva trascorso molte ore per scegliere personalmente gli oggetti di quella stanza. Alcuni erano costati un’autentica fortuna, ma non era il danno economico che la infastidiva, in quanto la maggior parte di quegli oggetti erano assicurati. Ma il loro valore affettivo non poteva essere ricomprato: erano stati i primi oggetti che avesse mai posseduto. Gli occhi le si velarono di lacrime.

Stordita e incredula, si aggirò ancora in mezzo a quello scempio prima di rendersi conto che forse anche lei era in pericolo. Si bloccò con le orecchie tese: la casa era immersa nel silenzio.

Un brivido gelido le corse lungo la schiena e per un attimo le sembrò di sentire qualcuno respirarle sul collo.

Si girò di scatto.

Non c’era nessuno.

L’armadio dell’ingresso era ancora chiuso come quando era entrata in casa. Lo fissò, nel timore che si potesse spalancare da un momento all’altro. Se qualcuno si fosse nascosto là dentro ad aspettarla, probabilmente si sarebbe già fatto vedere.

È assurdo, pensò. Non può succedere un’altra volta. E impossibile. È ridicolo. Non è vero?

Avvertì un rumore dietro di lei.

Si girò, preparandosi a colpire l’assalitore con il braccio libero.

Ma non c’era nessuno. Era sola nella stanza.

Nonostante tutto, era convinta che ciò che aveva udito non era un semplice scricchiolio del parquet. Sapeva di non essere sola in casa. Avvertiva un’altra presenza.

Di nuovo quel rumore.

In sala da pranzo.

Un colpo secco. Un tintinnio. Come se qualcuno avesse appoggiato un piede sui cocci di vetro o di porcellana.

Un altro passo.

La sala da pranzo si trovava a pochi metri da Hilary. Era immersa nel buio.

Un altro passo: crac.

Hilary cominciò ad arretrare, allontanandosi dalla fonte del rumore, dirigendosi verso la porta d’ingresso che le sembrava irraggiungibile. Perché mai l’aveva chiusa a chiave?

Un uomo emerse dall’oscurità della sala da pranzo e avanzò nella penombra: era alto, robusto e con le spalle larghe. Si fermò per un attimo, poi fece un passo nel salotto illuminato.

«No!» urlò Hilary.

Sbalordita, si fermò. Con il cuore che le batteva all’impazzata e le labbra secche, prese a scuotere la testa: no, no, no.

L’uomo stringeva in mano un lungo coltello affilato e luccicante. Le sorrise. Era Bruno Frye.

Tony era contento che le strade fossero deserte; non avrebbe sopportato di perdere un secondo più del necessario. Aveva già il terrore di arrivare troppo tardi. Pigiò sull’acceleratore e poco dopo raggiunse la prima discesa subito fuori Beverly Hills; il motore rombava e i finestrini e gli oggetti sul cruscotto tintinnavano. Ai piedi della collina il semaforo era rosso. Tony non sfiorò neppure il freno. Si limitò a suonare il clacson e attraversò l’incrocio a tutta velocità. Si incuneò in un canale di scolo che ad andatura normale sarebbe passato inosservato ma in quel momento gli parve incredibilmente profondo. Per una frazione di secondo si sentì sospeso in aria, poi sbattè la testa contro il tettuccio nonostante la cintura di sicurezza. La jeep atterrò pesantemente sull’asfalto e un rumore di ferraglia riecheggiò assieme allo stridio delle gomme. La macchina cominciò a sbandare, con la coda che slittava e le gomme che fumavano. Per un istante, Tony temette di perdere il controllo, poi il volante rispose nuovamente ai suoi comandi e si ritrovò oltre la metà della collina successiva senza neanche sapere come.

Viaggiava a sessanta chilometri l’ora, ma accelerò immediatamente fino a cento. Decise che non era il caso di esagerare, visto che era quasi arrivato. Se si fosse schiantato contro un lampione o si fosse ammazzato fuori strada, non sarebbe stato di grande aiuto a Hilary.

Comunque continuò a ignorare i limiti di velocità. Andava troppo forte, tagliando le curve una dopo l’altra e ringraziando il cielo di non incrociare auto che venissero in senso contrario. I semafori erano tutti contro di lui, quasi fossero un segno del destino, ma Tony li ignorò. Non aveva paura di essere multato per guida pericolosa. Se l’avessero fermato, avrebbe mostrato il distintivo e trascinato i colleghi in uniforme da Hilary. Ma preferiva rinunciare ai rinforzi, perché avrebbe significato fermarsi, identificarsi e spiegare l’emergenza. Se l’avessero fatto accostare, avrebbe perso come minimo un minuto prezioso.

E aveva il presentimento che un minuto avrebbe potuto significare la vita o la morte di Hilary.

Mentre fissava Bruno Frye che si avvicinava, Hilary pensò di essere impazzita. Quell’uomo era morto. Morto! L’aveva accoltellato due volte, aveva visto il suo sangue. L’aveva riconosciuto anche all’obitorio: era rigido, livido e senza vita. Gli avevano fatto l’autopsia. Era stato steso il certificato di morte. I morti non camminano. Eppure lui era tornato fra i vivi, era uscito dalla sala da pranzo quale ospite decisamente indesiderato, con un coltello in mano, per finire ciò che aveva iniziato la settimana precedente. Ma era semplicemente impossibile.

Hilary chiuse gli occhi e pregò che sparisse, ma un secondo più tardi, quando si obbligò a guardare nuovamente, lui era ancora lì.

Hilary era pietrificata. Voleva correre ma il suo corpo era rigido, bloccato, e lei non aveva la forza di farlo muovere. Si sentiva debole e fragile come una vecchietta: era sicura che se fosse riuscita in qualche modo a sbloccarsi e a fare un passo, sarebbe crollata.

Non riusciva a parlare, ma dentro di sé stava urlando.

Frye si fermò a un metro e mezzo da lei, con un piede su un pezzo dell’imbottitura strappata. Era cadaverico, tremava vistosamente ed era sicuramente sull’orlo di una crisi isterica.

Un morto poteva essere isterico?

Doveva essere impazzita. Era l’unica soluzione. Si trattava di pazzia pura. Ma sapeva che non era così.

Un fantasma? Lei non credeva ai fantasmi. Inoltre, uno spirito non dovrebbe essere inconsistente, trasparente o perlomeno luminoso? Un’apparizione poteva essere così reale, convincente e terrificante come quel morto in piedi?

«Puttana,» la insulto. «Sporca puttana!»

Quella voce roca e dal tono gracchiante era inconfondibile.

Ma, pensò Hilary terrorizzata, le sue corde vocali avrebbero già dovuto cominciare a decomporsi. La sua gola dovrebbe essere bloccata dalla putrefazione.

Sentì nascere in lei una risatina isterica ma si controllò. Se avesse cominciato a ridere, non si sarebbe più fermata.

«Mi hai ucciso,» l’accusò minaccioso, sempre sull’orlo della crisi isterica.

«No,» rispose Hilary. «Oh no. No.»

«Invece sì,» urlò lui brandendo il coltello. «Mi hai ucciso! Non mentire. Ne sono sicuro. Pensavi non lo sapessi? Oh, Cristo! Mi sento così strano, così solo, abbandonato e vuoto.» La sua voce tradiva una sofferenza mista a rabbia. «Così vuoto e spaventato. E tutto per colpa tua.»

Si avvicinò lentamente, camminando fra gli oggetti in frantumi.

Hilary vide che gli occhi del morto non erano vuoti o velati dalla cataratta. Quegli occhi erano grigio azzurri, vivaci e colmi di una rabbia gelida.

«Questa volta morirai per sempre,» sibilò Frye avvicinandosi. «Non tornerai mai più.»

Hilary cercò di allontanarsi, fece un passo indietro ma le gambe cedettero.

Riuscì tuttavia a non cadere. Le era rimasta più forza di quanto pensasse.

«Questa volta,» continuò Frye, «prenderò ogni precauzione. Non avrai più alcuna possibilità di tornare. Ti strapperò quel maledetto cuore.»

Hilary indietreggiò ancora, ma era inutile: non poteva scappare. Non avrebbe avuto il tempo di raggiungere la porta e sbloccare entrambe le serrature. Se ci avesse provato, lui le sarebbe stato subito addosso, affondandole il coltello nella schiena.