«Grazie.»
«Meglio qualche precauzione in più.»
A St. Helena, alle 16.10 di martedì Joshua Rhinehart riattaccò la cornetta del telefono del suo ufficio e si appoggiò allo schienale della sedia, compiaciuto di se stesso. Negli ultimi due giorni ne aveva fatto di lavoro. Ruotò sulla sedia e si mise a osservare il panorama di montagne e vigneti.
Aveva passato praticamente tutta la giornata di lunedì al telefono a discutere con le banche, gli agenti di borsa e i consulenti finanziari di Bruno Frye. Aveva assistito a lunghe discussioni su come gestire il patrimonio fino al momento della liquidazione dell’eredità, per non parlare delle non poche considerazioni su come distribuire i vari beni per ottenere il massimo del profitto. Era stato un lavoro a incastro lungo ed estenuante, in considerazione dei numerosissimi conti di risparmio, delle varie banche, dei Buoni del Tesoro e del ricchissimo Portfolio composto da azioni, partecipazioni immobiliari e via dicendo.
Joshua aveva trascorso la mattinata e la maggior parte del pomeriggio di martedì al telefono, nel tentativo di convincere alcuni dei critici d’arte più acclamati della California a venire a St. Helena per catalogare e valutare le massicce collezioni che la famiglia Frye era riuscita ad accumulare nel corso degli ultimi sessanta, settant’anni. Leo, il patriarca e padre di Katherine, ormai morto da quarant’anni, aveva iniziato con semplici rubinetti di legno fatti a mano che in Europa venivano usati per spillare vino e birra dalle botti. Ce n’erano a forma di testa con bocche spalancate, sorridenti, tristi, infuriate o ghignanti di demoni, angeli, pagliacci, lupi, elfi, fate, streghe, gnomi e altre creature. Al momento della sua morte, Leo era riuscito a raccogliere più di duemila rubinetti. Katherine aveva iniziato a condividere la passione del padre mentre lui era ancora in vita e, dopo la sua morte, la collezione si era trasformata nel fulcro vitale della sua esistenza. Gli oggetti di valore in genere erano diventati la sua vera passione e, più tardi, una vera mania. (Joshua ricordava come le luccicavano gli occhi e quanto parlava a perdifiato ogni volta che gli mostrava un nuovo acquisto; era evidente che quella frenesia di riempire ogni stanza, ogni armadio e ogni cassetto di gingilli non poteva essere considerata molto normale, ma ai ricchi era permessa ogni eccentricità, a condizione che nessuno ne venisse danneggiato.) Comprava scatolette smaltate, dipinti paesaggistici di inizio secolo, cristalli Lalique, lampade di vetro colorato, antichi medaglioni lavorati in rilievo e altri ancora, non tanto per investire il denaro, quanto per un’esigenza personale. Ne aveva bisogno come un drogato ha bisogno della sua dose durante una crisi di astinenza. Aveva riempito la casa di vetrinette e aveva passato ore e ore a pulire, spolverare e riordinare. Anche Bruno aveva continuato la tradizione del collezionismo e ormai entrambe le case (quella costruita da Leo nel 1918 e quella di Bruno) erano piene zeppe di tesori. Per tutta la giornata di martedì Joshua aveva contattato gallerie e aste prestigiose di San Francisco e Los Angeles e tutti si erano mostrati molto disponibili a inviare estimatori, in considerazione soprattutto delle grasse commissioni che potevano essere ricavate dalla vendita delle collezioni di Frye. Sabato mattina sarebbero arrivati due esperti da San Francisco e due da Los Angeles. Immaginando che la catalogazione di tutti i possedimenti di Frye avrebbe richiesto diversi giorni di lavoro, Joshua decise di prenotare alcune stanze alla pensione del paese.
Alle 16.10 di martedì, iniziò a credere di avere il concreto controllo della situazione e, per la prima volta dopo la morte di Bruno, riuscì a fare una previsione sui tempi che gli sarebbero occorsi per portare a termine il suo compito di esecutore testamentario. All’inizio aveva temuto di rimanere incastrato nella pratica per anni, viste le dimensioni dell’eredità. Ma dopo aver ripreso in esame il testamento, da lui stesso stilato cinque anni prima, e dopo aver constatato la bravura con cui i consulenti finanziari avevano consigliato Bruno, si convinse di poter portare a termine l’incarico nel giro di qualche settimana. Il lavoro sarebbe stato facilitato da tre fattori che raramente si combinano nelle questioni ereditarie dei multimiliardari. Per prima cosa, non esistevano parenti in vita che potessero impugnare il testamento o creare altri problemi. In secondo luogo, l’importo che fosse rimasto, detratte tutte le tasse, sarebbe stato devoluto a un unico istituto di carità ben specificato nel testamento. Terzo, per essere un uomo tanto opulento, Bruno Frye aveva investito in modo molto semplice e il suo esecutore testamentario si era trovato di fronte a un bilancio ragionevolmente chiaro con voci di facile comprensione. Tre settimane dovevano essere sufficienti. Al massimo quattro.
Dopo la morte di sua moglie Cora, avvenuta tre anni prima, Joshua aveva preso coscienza della brevità della vita e cercava di dosare gelosamente il proprio tempo. Non intendeva sprecarne un solo giorno e ogni minuto trascorso con la testa immersa nell’eredità di Frye era un minuto sprecato. Naturalmente avrebbe presentato una parcella esorbitante per le sue prestazioni legali, ma ormai aveva già tutti i soldi di cui poteva aver bisogno. Nella valle aveva qualche proprietà immobiliare, senza contare gli ettari di terreno coltivati a vigne che fornivano uva a volontà a due grandi cantine. Per un istante, aveva anche preso in considerazione l’idea di chiedere alla corte di sollevarlo dal suo incarico; c’era una delle banche di Frye che si sarebbe occupata volentieri dell’eredità. Aveva anche pensato di passare la pratica a Ken Gavins e Roy Genelli, i due giovani e brillanti avvocati che aveva accolto in società sette anni prima. Ma il forte senso di lealtà di cui era dotato gli aveva impedito di scegliere la soluzione più semplice. Dopotutto era stata Katherine Frye a dargli la prima grande opportunità professionale trent’anni prima e sentiva di doverle almeno il tempo necessario per gestire una sistematica e dignitosa dissoluzione dell’impero Frye.
Tre settimane.
E poi avrebbe potuto dedicarsi a cose più divertenti: leggere, nuotare, volare con il suo ultimo acquisto, imparare a cucinare nuovi piatti e concedersi occasionali fine settimana a Reno. Ormai Ken e Roy si occupavano di tutti gli affari della società e se la cavavano piuttosto bene. Joshua non si era ancora completamente tuffato nei piaceri della pensione, ma poco ci mancava. Spesso si godeva il tempo libero che rimpiangeva di non aver avuto quando Cora era ancora in vita.
Alle 16.20, soddisfatto dall’andamento del lavoro e deliziato dallo splendido panorama autunnale che gli offriva la finestra dell’ufficio, si alzò e si diresse verso l’ingresso. Karen Farr stava martellando con forza sulla tastiera dell’IBM Selectric ii, che avrebbe obbedito anche al leggero tocco di una piuma. Karen aveva l’aspetto fragile, era pallida, con gli occhi azzurri e la voce sommessa, ma affrontava ogni lavoro con un incredibile impeto di energia e forza.
«Sto per concedermi un bicchierino di whisky pomeridiano,» le comunicò, «se dovesse cercarmi qualcuno, risponda pure che sono ubriaco fradicio e non sono in grado di parlare con nessuno.»
«E il commento di tutti sarà: ‘Come? Ancora?’»
Joshua scoppiò a ridere. «Lei è davvero molto carina, Miss Farr. È uno scricciolo, ma ha un cervello e una lingua deliziosamente veloci.»
«E quante fandonie mi tocca sentire da un uomo che non è nemmeno irlandese. Vada pure a bere il suo whisky. Mi occuperò io delle tediosissime orde.»
Tornato in ufficio, aprì l’anta del mobile bar, infilò nel bicchiere un paio di cubetti di ghiaccio e aggiunse una generosa dose di Jack Daniels Black Label. Aveva appena iniziato a sorseggiarlo quando qualcuno bussò alla porta dell’ufficio.
«Avanti.»
Karen fece capolino. «Ci sarebbe una telefonata…»
«Pensavo di aver avuto il permesso di bere in santa pace.»