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Joshua aveva fatto un sopralluogo il giorno prima. Si era limitato a un rapido giro per controllare che fosse tutto a posto e non aveva notato niente di strano.

Perché Bruno aveva aperto quei conti a San Francisco senza dirlo a nessuno?

Esisteva veramente un sosia?

Chi? E perché?

Maledizione!

Evidentemente la definizione dell’eredità Frye non sarebbe stata un compito così facile come previsto.

Alle diciotto di martedì, mentre Tony svoltava nella strada che passava davanti a casa sua, Hilary si sentiva più desta che mai. Era entrata nella fase di veglia con gli occhi sgranati, tipica di chi non dorme per un giorno e mezzo. Tutt’a un tratto la mente e il corpo decisero che era il caso di trarre il massimo da quello stato di coscienza forzato e, per chissà quale scherzo chimico, la carne e lo spirito si sentirono rinnovati. Smise di sbadigliare. La vista tornò a essere chiara. La stanchezza cominciò a recedere. Ma si rendeva conto che si trattava solo di un canto del cigno. Dopo un paio di ore, quello stato di ebbrezza si sarebbe inevitabilmente infranto di colpo, più o meno come quando comincia la discesa dai picchi anfetaminici. E a quel punto avrebbe fatto fatica persino a reggersi sulle gambe.

Aveva sistemato tutte le questioni in sospeso insieme con Tony: il liquidatore dell’assicurazione, il servizio di pulizia dell’appartamento, i rapporti di polizia e tutto il resto. L’unica cosa che non era andata liscia era stata la sosta alla Wyant Stevens Gallery di Beverly Hills. Sia Wyant sia la sua assistente, Betty, erano assenti e la ragazza cicciottella che le aveva dato retta non si era dimostrata entusiasta all’idea di accettare i quadri di Tony. Non voleva addossarsi quella responsabilità, ma alla fine Hilary era riuscita a convincerla che nessuno l’avrebbe citata per danni se qualcuna delle tele fosse stata incidentalmente rovinata. Poi aveva scritto un messaggio per Wyant per spiegargli i precedenti del pittore. Infine era andata con Tony agli uffici della Topelis Associates per chiedere a Wally di porgere le sue scuse alla Warner Brothers. Era stato fatto tutto. L’indomani, dopo il funerale di Frank Howard, avrebbero preso il volo delle 11.55 della PSA per San Francisco, dove li aspettava una navetta aerea per Napa.

Poi, partenza per St. Helena con un’auto a noleggio.

Poi sarebbero arrivati alla casa di Bruno Frye.

E poi… che altro?

Tony parcheggiò la jeep e spense il motore.

Hilary disse: «Mi sono dimenticata di chiederti se sei riuscito a prenotare un albergo.»

«La segretaria di Wally si è occupata delle prenotazioni mentre tu e lui vi stavate abbracciando in ufficio.»

«All’aeroporto?»

«Sì.»

«Non letti separati, spero.»

«Una matrimoniale imperiale.»

«Bene,» commentò. «Voglio sentirti vicino, quando comincerò a scivolare nel sonno profondo.»

Tony si sporse di lato e la baciò.

Ci vollero una ventina di minuti per preparare le valigie e caricarle sulla jeep. Nel frattempo Hilary temette di veder saltar fuori Frye da qualche angolo, con il ghigno stampato in volto.

Ma non accadde nulla.

Si diressero all’aeroporto optando per una circonvallazione piena di curve e controcurve.

Hilary non smise di guardarsi alle spalle.

Ma nessuno li seguiva.

Raggiunsero l’albergo alle 19.30. Con un tocco di cavalleria vecchia maniera che divertì Hilary, Tony si presentò come suo marito.

La stanza si trovava all’ottavo piano. Era tranquilla, con strani giochi di ombre verdi e blu.

Dopo che il fattorino se ne fu andato, rimasero immobili di fianco al letto, stringendosi in silenzio per condividere la stanchezza e le poche forze rimaste.

Nessuno dei due se la sentiva di uscire a cena. Tony chiamò il servizio in camera e l’operatore rispose che avrebbero dovuto attendere mezz’ora.

Fecero la doccia insieme. Si insaponarono e si risciacquarono a vicenda con gioia, ma senza alcuna implicazione sessuale. Erano troppo stanchi per la passione. Il bagno in compagnia fu solo rilassante, tenero e dolce.

Mangiarono tramezzini e patatine fritte.

Sorseggiarono una mezza bottiglia di Gamay rosé di Robert Mondavi.

Chiacchierarono.

Sistemarono un asciugamano sulla lampada che rimase accesa per tutta la notte, perché, per la seconda volta in vita sua, Hilary aveva paura di dormire al buio.

Poi si addormentarono.

Otto ore dopo, alle 5.30 del mattino, Hilary si svegliò di colpo da un brutto sogno in cui Earl ed Emma erano tornati in vita, esattamente come Bruno Frye. Tutt’e tre la rincorrevano per un corridoio buio che diventava sempre più stretto…

Non riuscì a riprendere sonno. Rimase sdraiata nella luce ambrata della lampada a guardare Tony che dormiva.

Alle 6.30 si svegliò anche lui, si voltò verso di lei, battè le palpebre e le toccò il viso e il seno. Si ritrovarono a fare l’amore. Per un breve istante Hilary riuscì a non pensare a Bruno Frye, ma più tardi, mentre si preparavano per il funerale di Frank, la paura l’aggredì di colpo.

«Davvero credi che sia il caso di andare a St. Helena?»

«Dobbiamo,» rispose Tony.

«Ma che cosa ci può succedere in quel posto?»

«Niente,» la rassicurò lui. «Andrà tutto bene.»

«Non ne sono tanto sicura,» mormorò lei.

«Scopriremo quello che sta accadendo.»

«È proprio questo che mi preoccupa. Ho la sensazione che sarebbe meglio non sapere niente.»

Katherine se n’era andata.

La puttana se n’era andata.

La puttana si stava nascondendo.

Bruno si era svegliato nel furgoncino blu verso le 18.30 di martedì, uscendo così da un incubo che non riusciva bene a ricordare, pieno di sussurri silenziosi e minacciosi. Qualcosa gli stava strisciando addosso: sulle braccia, sulla faccia, sui capelli, persino sotto i vestiti. Qualcosa che cercava di entrare dentro di lui attraverso le orecchie, la bocca, le narici. Qualcosa di incredibilmente sporco e maligno. Aveva lanciato un urlo e si era graffiato dappertutto finché non era riuscito a ricordare dove si trovava; poi, lentamente, quei terribili sospiri si erano dissolti e la cosa strisciante era sparita. Era rimasto rannicchiato su un fianco, in posizione fetale, per qualche minuto e poi si era messo a piangere per il sollievo.

Un’ora più tardi, dopo aver mangiato in un MacDonald, era partito alla volta di Westwood. Era passato davanti alla casa di Katherine per una decina di volte, poi aveva parcheggiata poco distante, nel punto più buio, fra due lampioni stradali. Era rimasto a osservare la sua casa per tutta la notte.

Ma lei era sparita.

Aveva portato i sacchettini pieni di aglio, i picchetti di legno, i crocefissi e le fialette di acqua santa. Aveva due coltelli molto affilati e un’accetta da falegname con cui avrebbe potuto staccarle la testa. Aveva il coraggio, la volontà e la decisione per farlo.

Ma lei era sparita.

Quando si era reso conto che avrebbe potuto stare via anche per giorni o settimane, si era infuriato. L’aveva maledetta e aveva pianto per il senso di frustrazione.

Poi, gradualmente, era riuscito a riprendere il controllo. Niente era perduto. L’avrebbe ritrovata.

L’aveva già ritrovata molte volte.

6

Mercoledì mattina, Joshua Rhinehart compì il breve volo verso San Francisco con il suo Cessna Turbo Skylane RG. Era uno splendido velivolo con una velocità di crociera di centosettantatré nodi e un’autonomia di oltre mille miglia.