Aveva iniziato a prendere lezioni di volo tre anni prima, poco dopo la morte di Cora. Aveva sempre sognato di diventare un pilota, ma solo all’età di cinquantotto anni era riuscito a trovare il tempo per imparare a volare. Quando Cora gli era stata strappata in modo così inaspettato, si era reso conto di essere un pazzo, convinto com’era che la morte non potesse sfiorarlo, che fosse una disgrazia che colpiva solo gli altri. Aveva sempre vissuto come se avesse posseduto una riserva inesauribile di vita. Pensava che in futuro avrebbe avuto tempo per rilassarsi, divertirsi e compiere i meravigliosi viaggi in Europa e in Oriente che aveva sempre sognato. Per questo motivo, aveva sempre rimandato vacanze e crociere. Prima c’era la carriera, poi i debiti fatti per pagare la vasta tenuta, poi l’impegno dell’azienda vinicola e infine… Poi Cora se n’era andata prima del tempo. Gli mancava terribilmente ed era pieno di rimorsi per tutte le cose che avevano rimandato e che non avrebbero mai più potuto fare insieme. Lui e Cora erano stati felici e avevano avuto una vita meravigliosa, eccellente sotto molti punti di vista. Non era mai mancato nulla: né il cibo, né una casa, né una giusta dose di lusso. Avevano sempre avuto abbastanza denaro. Ma mai abbastanza tempo. Non poteva fare a meno di pensare a come avrebbe potuto essere la loro esistenza. Non poteva riportare in vita Cora, ma almeno era deciso ad approfittare di tutto ciò che poteva renderlo felice negli anni che gli rimanevano. I suoi passatempi erano perlopiù solitari, in quanto non era mai stato un tipo di compagnia e considerava nove persone su dieci ignoranti o cattive. Nonostante amasse la solitudine, sapeva comunque benissimo che tutto sarebbe stato decisamente più bello se avesse avuto Cora al suo fianco. Volare rappresentava una delle poche eccezioni. Nel suo Cessna, alto nel cielo, si sentiva libero da qualsiasi costrizione: non solo libero dalla forza di gravita, ma anche dalle catene del rimpianto e del rimorso.
Tranquillo e rilassato dal volo appena compiuto, Joshua atterrò a San Francisco poco dopo le nove. Meno di un’ora più tardi, era alla First Pacific United Bank per incontrarsi con il signor Ronald Preston, l’uomo con cui aveva parlato per telefono martedì pomeriggio.
Preston era il vicepresidente della banca e aveva un ufficio lussuoso le cui pareti erano tappezzate con pannelli di pelle e teak lucido. Era un locale ampio, spazioso e decisamente ricco.
Preston era alto e magro, di aspetto fragile e delicato, con la pelle abbronzata e un bel paio di baffi. Parlava molto velocemente gesticolando in continuazione, come una macchina in corto circuito che emana scintille. Era decisamente nervoso.
Ma era anche efficiente. Aveva preparato un rapporto dettagliato sulla situazione di Bruno Frye, con resoconti completi dei cinque anni durante i quali Frye era stato correntista della First Pacific United. L’incartamento conteneva una lista con i versamenti e i prelievi, una seconda lista che riportava i giorni in cui Frye aveva aperto la sua cassetta di sicurezza, le fotocopie degli estratti conto mensili e gli assegni relativi a tale conto.
«A prima vista,» spiegò Preston, «può sembrare che non le abbia fornito tutte le copie degli assegni staccati da Mr Frye. Ma le assicuro che sono tutti qua. È solo che non ce ne sono molti. Sul conto sono stati versati e prelevati molti soldi, ma, per i primi tre anni e mezzo, Mr Frye si è limitato a due assegni al mese. Nell’ultimo anno e mezzo gli assegni erano tre ogni mese e sempre intestati alle stesse persone.»
Joshua non aprì nemmeno la cartelletta. «Controllerò tutto più tardi. Ora vorrei rivolgere alcune domande alla cassiera responsabile dei movimenti sui vari conti correnti.»
In un angolo della stanza c’era un tavolo rotondo per conferenze, attorno al quale erano state sistemate sei comode poltrone imbottite. Joshua decise che era il luogo ideale per interrogare i dipendenti della banca.
Cynthia Willis, la cassiera, era una donna di colore sulla trentina, piuttosto attraente e spigliata. Indossava una gonna blu e una camicetta bianca. Aveva i capelli ben pettinati e le lunghe unghie laccate di rosso. Si muoveva con grazia e si sedette in modo composto quando Joshua le indicò la sedia di fronte a lui.
Preston rimase in piedi accanto alla scrivania, visibilmente agitato.
Joshua aprì la busta che aveva con sé e ne estrasse quindici fotografie di persone che abitavano o avevano abitato a St. Helena. Le sparse sul tavolo e disse: «Miss Willis…»
«Mrs Willis,» lo corresse la donna.
«Mi scusi. Mrs Willis, voglio che osservi bene queste fotografie e che poi mi dica chi di questi è Bruno Frye. Ma deve osservarle con la massima attenzione.»
La donna diede un’occhiata alle foto e ne prese due. «Eccolo.»
«Ne è sicura?»
«Assolutamente,» rispose. «Non era molto difficile. Gli altri tredici non gli assomigliano per niente.»
Aveva fatto un ottimo lavoro, molto meglio di quanto si aspettasse. Alcune foto erano sfocate, altre scattate con una luce molto fioca. Joshua aveva scelto appositamente delle brutte foto per rendere più difficile l’identificazione, ma Mrs Willis non aveva avuto la benché minima esitazione. Anche se aveva affermato che le altre tredici persone non assomigliavano minimamente a Frye, Joshua sapeva che non era vero. Aveva scelto alcune persone che potevano ricordare Frye, soprattutto in una foto sfocata, ma Cynthia non si era lasciata trarre in inganno; non era neppure caduta nel vecchio tranello di includere due foto estremamente diverse della stessa persona.
Indicando le foto con un dito, Mrs Willis proseguì: «Questo è l’uomo che è venuto in banca giovedì pomeriggio.»
«Giovedì mattina,» spiegò Joshua, «è stato ucciso a Los Angeles.»
«Non ci credo,» esclamò la donna con fermezza. «Ci deve essere un errore.»
«Ho visto il suo corpo,» proseguì Joshua. «L’abbiamo sepolto a St. Helena domenica scorsa.»
Lei scosse la testa. «Era qualcun altro. Avete seppellito la persona sbagliata.»
«Conosco Bruno Frye da quando aveva cinque anni,» continuò Joshua. «Non posso sbagliarmi.»
«E io so chi ho visto,» rispose Mrs Willis con tono gentile ma risoluto.
Non si voltò neppure verso Preston. Era troppo orgogliosa per lasciarsi intimorire dalla presenza del vicepresidente. Sapeva di essere una brava lavoratrice e non aveva paura del capo. Si raddrizzò sulla sedia e proseguì: «Mr Preston ha diritto a esprimere la sua opinione. Ma, dopotutto, lui non ha visto quell’uomo. Io sì. Era Mr Frye. Negli ultimi cinque anni è venuto in banca due o tre volte al mese. Ha sempre effettuato versamenti di circa duemila dollari, a volte anche tremila, e sempre in contanti. In contanti. Non capita molto spesso. Per questo è facile ricordarsi di lui. Per non parlare del suo aspetto, con tutti quei muscoli e…»
«Immagino che non abbia sempre effettuato i versamenti al suo sportello.»
«Non sempre,» ammise lei. «Ma molto spesso. E le giuro che è stato lui a effettuare quel prelievo giovedì scorso. Se davvero lo conosce, Mr Rhinehart, saprà anche che non serve vedere in faccia Mr Frye per capire che è lui. Con quella sua strana voce, lo riconoscerei a occhi chiusi.»
«Una voce può essere imitata,» suggerì Preston, intervenendo per la prima volta nella conversazione.
«Non la sua,» osservò Mrs Willis.
«Lo si potrebbe fare,» disse Joshua, «ma non sarebbe facile.»
«E quegli occhi,» proseguì Mrs Willis. «Erano strani quasi quanto la voce.»
Colpito da quell’osservazione, Joshua si sporse verso di lei e le chiese: «Che cos’avevano gli occhi?»
«Erano freddi,» rispose. «E non solo perché erano azzurro grigi. Erano occhi molto freddi e duri. Non riusciva a guardarmi dritto negli occhi. Continuavano a sfuggirmi, come se temesse che potessi leggere i suoi pensieri. Poi, ogni tanto, quando iniziava a fissarmi, avevo come l’impressione… be’… che fossero gli occhi di qualcuno non completamente a posto con la testa.»