Per il momento, Joshua decise di non occuparsi della fortezza vittoriana di Leo Frye: la moderna casa di Bruno era decisamente più accessibile e altrettanto interessante. Proseguì lungo la strada che conduceva al parcheggio e girò a sinistra in un vicolo dal fondo sconnesso, sprofondato in mezzo ai vigneti assolati. Il viottolo superò una collina, continuò attraverso una gola, risalì un pendio e terminò nella radura dove Bruno aveva fatto costruire la sua casa seminascosta dalle vigne. Era un vasto edificio a un piano, in legno di sequoia e pietre, simile a un ranch, posto all’ombra di una delle nove gigantesche querce che costellavano la proprietà della famiglia Frye.
Joshua scese dalla macchina e s’incamminò verso l’ingresso. Il cielo azzurro elettrico era attraversato solo da alcune nuvole sparse. L’aria proveniente dalle vette delle Mayacamas era frizzante e limpida.
Fece scattare la serratura, entrò e rimase nell’ingresso per un attimo con le orecchie tese. Non sapeva esattamente che cosa si aspettava di sentire.
Forse un rumore di passi.
O la voce di Bruno Frye.
Ma regnava il silenzio più completo.
Attraversò tutta la casa per raggiungere lo studio di Frye. L’arredamento era la prova che Bruno aveva ereditato l’ossessione di Katherine di collezionare e ammassare oggetti di valore. Su alcune pareti erano stati appesi innumerevoli quadri con le cornici che si sfioravano: nessun dipinto poteva catturare l’attenzione in quella confusione di forme e colori. Ovunque erano disseminate vetrinette colme di cristalleria, sculture in bronzo, fermacarte e oggetti dell’era precolombiana. I locali contenevano decisamente troppi mobili, ma ogni pezzo rappresentava un impareggiabile esempio di un dato periodo e di un dato stile. Nell’ampio studio c’erano cinque o seicento libri rari, molti dei quali in edizione limitata e rilegata in pelle; in una vetrinetta erano raggnippate alcune decine di figurine cesellate; c’erano inoltre sei sfere di cristallo assolutamente perfette e di gran valore, dalla più piccola, delle dimensioni di un’arancia, alla più grande, simile a un pallone da pallacanestro.
Joshua aprì le tende lasciando filtrare la luce del sole, accese una lampada d’ottone e si sedette nella comoda poltrona dietro la gigantesca scrivania inglese del diciottesimo secolo. Estrasse dalla tasca la strana lettera rinvenuta nella cassetta di sicurezza della First Pacific United Bank. In realtà era solo una fotocopia. Warren Sackett, l’agente dell’FBI, aveva insistito per tenere l’originale. Joshua spiegò il foglio di carta e lo appoggiò davanti a sé. Si voltò verso il tavolino da dattilografia posto accanto alla scrivania, infilò un foglio nella macchina per scrivere e ricopiò la prima frase della lettera.
Mia madre, Katherine Anne Frye, è morta cinque anni fa, ma continua a ritornare in vita in corpi diversi.
Si mise a confrontare i due fogli. I caratteri erano gli stessi. In entrambi i casi gli occhielli delle «e» erano completamente pieni d’inchiostro perché i tasti non venivano puliti da parecchio tempo. Su entrambi gli scritti la «a» risultava parzialmente occlusa e la «d» era stata battuta leggermente più in alto rispetto agli altri caratteri. Quella lettera era stata scritta nello studio di Bruno Frye, con la macchina di Bruno Frye.
Il fantomatico sosia, l’uomo che si era spacciato per Frye nella banca di San Francisco il giovedì precedente, sembrava possedere la chiave di quella casa. Ma come l’aveva ottenuta? La risposta più ovvia era che fosse stato Bruno a fornirgliela, e questo significava che il sosia era stato assunto appositamente.
Joshua si appoggiò allo schienale e fissò la fotocopia della lettera. Aveva la testa che brulicava di interrogativi scottanti. Perché Bruno aveva dovuto assumere un sosia? E dove aveva trovato una persona che gli somigliava tanto? Da quanto tempo lavorava per lui? E che cosa faceva? Quante volte lui stesso aveva parlato con quel sosia, convinto che si trattasse di Frye? Probabilmente più di una volta. Forse si era rivolto più spesso a lui che non al vero Frye. Non c’era modo di saperlo. Forse giovedì mattina, quando Bruno era stato ucciso a Los Angeles, il suo sosia era proprio in quella casa? Era probabile. In fin dei conti, la lettera ritrovata nella cassetta di sicurezza era stata scritta proprio lì e quindi era ovvio che quell’individuo avesse appreso la notizia nello stesso posto. Ma come aveva fatto a scoprire così velocemente che Bruno era morto? Era possibile che, prima di morire, Bruno avesse chiamato casa sua per parlare con il sosia? Sì. Era possibile. Anzi, probabile. Avrebbe dovuto controllare alla società dei telefoni. Ma che cosa si erano detti quei due, mentre uno stava per morire? Era logico supporre che soffrissero della stessa forma di psicosi e che entrambi credessero che Katherine fosse tornata dall’inferno?
Joshua fu scosso da un brivido. Piegò la lettera e se la rimise in tasca.
Per la prima volta, si rese conto di quanto fossero lugubri quelle stanze: stracolme di mobili e oggetti costosi, con le finestre oscurate da pesanti tendaggi e i pavimenti coperti da tappeti scuri. Improvvisamente, quella casa gli parve ancora più isolata della sontuosa dimora di Leo.
Un rumore. Nell’altra stanza.
Joshua rimase paralizzato, ma si sforzò di girare attorno alla scrivania. Rimase in attesa, con le orecchie tese. «Immaginazione,» mormorò, cercando di rassicurare se stesso.
Tornò rapidamente all’ingresso principale e capì che quel rumore era stato davvero frutto della sua immaginazione. Non era stato aggredito da nessuno. A ogni modo, quando finalmente uscì, chiudendosi la porta alle spalle, trasse un profondo respiro di sollievo.
Lungo la strada che conduceva al suo ufficio di St. Helena Joshua si pose alcuni interrogativi. La settimana prima, chi era morto a Los Angeles? Frye o il suo sosia? Chi si era recato alla First Pacific United Bank giovedì? Il vero Frye o il suo sostituto? Come avrebbe deciso di liquidare l’intero patrimonio senza sapere che cos’era successo effettivamente? Aveva una valanga di interrogativi, ma solo pochissime risposte.
Qualche minuto più tardi, posteggiò davanti all’ufficio e si rese conto che avrebbe dovuto prendere seriamente in considerazione il consiglio di Mrs Willis. Forse sarebbe stato meglio aprire la tomba di Bruno Frye per determinare esattamente l’identità dell’uomo sepolto.
Tony e Hilary atterrarono a Napa, noleggiarono una macchina e arrivarono all’ufficio dello sceriffo di Napa County alle 16.20 di mercoledì. Quell’ufficio non aveva l’aria sonnacchiosa che ci si sarebbe aspettati in un piccolo centro. Due giovani agenti e un paio di impiegati diligenti erano alle prese con schedari e scartoffie.
La segretaria dello sceriffo sedeva dietro una grande scrivania di metallo, sulla quale era appoggiato un cartellino con il nome: MARSHA PELETRINO. Era una donna dall’aspetto comune e dai lineamenti severi, ma la sua voce era morbida e sexy. Il suo sorriso era decisamente più invitante e gradevole di quanto avesse immaginato Hilary.
Quando Marsha Peletrino aprì la porta dell’ufficio privato di Peter Laurenski e annunciò che Tony e Hilary desideravano parlargli, lo sceriffo capì immediatamente chi erano e non cercò di evitarli, come avevano immaginato i due visitatori. Uscì dall’ufficio e strinse loro la mano in modo goffo. Sembrava imbarazzato. Era ovvio che non aveva molta voglia di spiegare perché aveva fornito un alibi falso a Bruno Frye quel mercoledì notte, ma, nonostante il disagio evidente, invitò Tony e Hilary a fare due chiacchiere.