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Frye rimase con l’occhio incollato all’oblò per tutto il pomeriggio, ma non notò tracce di Hilary Thomas e si convinse che la donna non era in casa. Pensò che non sarebbe tornata finché non avesse avuto la certezza di essere al sicuro, finché non avesse appurato che lui era morto.

«Ma non sarò io a morire,» esclamò a voce alta continuando a fissare la casa. «Mi hai sentito, puttana? Ti inchioderò per primo. Ti troverò prima che tu possa scovare me. E ti taglierò quella fottuta testa.»

Poco prima delle cinque, le ragazze caricarono l’attrezzatura nel retro del furgoncino. Chiusero a chiave la porta d’ingresso e si allontanarono.

Bruno le seguì.

Era l’unica traccia che potesse condurlo a Hilary Thomas. Era stata quella puttana a farle venire e sicuramente loro sapevano dove si trovava. Se fosse riuscito a far parlare una di quelle ragazze, avrebbe scoperto dove si nascondeva Katherine.

L’impresa di pulizie aveva la propria sede in un edificio di un solo piano in una sudicia stradina laterale nella zona di Pico. Frye seguì il furgoncino che andò a parcheggiare sul retro della costruzione, accanto ad altri otto veicoli simili con la medesima scritta in caratteri blu e dorati.

Frye passò davanti alla schiera di furgoncini bianchi, giunse al primo incrocio, svoltò intorno alla rotonda e ritornò da dove era venuto. Arrivò giusto in tempo per vedere le tre ragazze che entravano nell’edificio. Nessuna sembrava essersi accorta di lui o del fatto che il Dodge era lo stesso posteggiato per tutta la giornata nei pressi della casa della Thomas. Si fermò accanto al marciapiede, sotto le fronde di un’enorme palma, e attese che una delle tre ragazze uscisse di nuovo.

Nel giro di dieci minuti, notò molte donne con il grembiule bianco che andavano e venivano, ma fra queste non riconobbe le tre che si erano occupate della casa di Hilary Thomas. Finalmente vide uscire una ragazza dal viso familiare che si diresse verso una Datsun gialla. Era giovane, sulla ventina, con i capelli lunghi e scuri che le arrivavano fino alla vita. Camminava con le spalle alte, la testa diritta e l’andatura sciolta e vigorosa. Il vento le incollava il grembiule ai fianchi e faceva svolazzare l’orlo all’altezza delle ginocchia. Salì sulla Datsun, uscì dal parcheggio e svoltò a sinistra.

Frye ebbe un attimo di esitazione e si chiese se non fosse il caso di aspettare una delle altre due. Ma qualcosa gli diceva che era la persona giusta. Mise in moto il Dodge e si allontanò dal marciapiede. Per non farsi riconoscere, cercò di lasciare qualche macchina fra il furgone e la Datsun gialla. La pedinò in modo estremamente discreto e la ragazza non si accorse di essere seguita.

Abitava a Culver City, a pochi isolati dagli studi cinematografici della MGM. Viveva in una vecchia e graziosa casetta in una strada piena di villette tutte uguali fra loro. Alcune avevano un aspetto un po’ squallido e triste e avrebbero avuto bisogno di qualche ritocco, ma la maggior parte era ben conservata: casette linde e riverniciate di fresco, con le persiane in colore contrastante, minuscole verande ben curate, qualche vetrata colorata, graziosi lampioncini e aiuole fiorite. Non era propriamente un quartiere facoltoso, ma si respirava un’atmosfera di gente determinata.

La casa della ragazza era immersa nell’oscurità. Lei andò all’interno e accese le luci.

Bruno posteggiò il Dodge dall’altra parte della strada. Spense i fanali e il motore e abbassò il finestrino. Il quartiere era tranquillo e sprofondato nel silenzio. Gli unici rumori provenivano dagli alberi scossi dall’insistente vento autunnale, dalle macchine di passaggio e da un giradischi o una radio lontana che trasmetteva musica swing. Era un pezzo di Benny Goodman, ma Bruno non riusciva a ricordare il titolo; la melodia di ottoni gli giungeva frammentariamente, secondo i capricci del vento. Rimase seduto dietro il volante con le orecchie tese e gli occhi vigili.

Alle 18.40, Frye decise che la ragazza non era sposata e non viveva neppure con un fidanzato. Se avesse diviso la casa con un uomo, questi avrebbe già dovuto essere di ritorno dal lavoro.

Frye le concesse altri cinque minuti.

La musica di Benny Goodman si interruppe.

Per il resto, tutto era rimasto uguale.

Alle 18.45 scese dal Dodge e attraversò la strada dirigendosi verso la casa.

Bruno notò che la villetta era decisamente troppo attaccata a quella dei vicini, ma perlomeno la linea di divisione era ricoperta da alberi fronzuti e cespugli rigogliosi che contribuivano a isolare il portico della ragazza da occhi indiscreti. Ma anche così avrebbe dovuto agire rapidamente, introducendosi nella casa senza fare confusione e non lasciandole il tempo di gridare.

Salì i due gradini della veranda. Le assi scricchiolarono. Suonò il campanello.

La ragazza rispose con voce incerta. «Sì?»

Alla porta era stata applicata una catena di sicurezza. Era più robusta della maggior parte delle catene, ma non era certo efficace come probabilmente pensava la ragazza. Un uomo molto più debole di Bruno Frye avrebbe potuto spezzarla con un paio di colpi ben assestati. Bruno non dovette fare altro che appoggiarsi con la spalla contro la porta, proprio mentre lei sorrideva e mormorava: «Sì?»

La porta esplose, con le schegge che volavano verso l’interno e pezzi di catenella che ricadevano sul pavimento con un rumore metallico.

Bruno spiccò un salto in avanti e si chiuse l’uscio alle spalle. Era sicuro che nessuno l’avesse visto entrare.

La ragazza era distesa sul pavimento. Il colpo l’aveva fatta cadere. Indossava ancora il grembiule bianco e la gonna era alzata sulle cosce. Aveva due splendide gambe.

Bruno si inginocchiò accanto a lei.

Era sbalordita. Aprì gli occhi e cercò di alzare lo sguardo verso di lui, ma sembrava facesse fatica a metterlo a fuoco.

Le puntò il coltello alla gola. «Se gridi,» la minacciò, «ti apro in due. Hai capito?»

Dai suoi grandi occhi scuri svanì lo smarrimento per lasciar posto alla paura. Iniziò a tremare. Le si riempirono gli occhi di lacrime scintillanti.

Con aria impaziente, Bruno le sfiorò la gola con la lama e apparve una minuscola goccia di sangue.

La ragazza si ritrasse.

«Non gridare,» ripetè. «Mi hai sentito?»

Con un enorme sforzo, lei riuscì a sussurrare: «Sì.»

«Farai la brava?»

«Ti prego. Ti prego, non farmi del male.»

«Non voglio farti del male,» rispose Frye. «Se sarai buona, se sarai carina e se collaborerai con me, non dovrò farti del male. Ma se ti metterai a urlare o cercherai di fuggire, sarò costretto a farti a pezzi. Mi sono spiegato?»

Con voce flebile, lei mormorò: «Sì.»

«Sarai carina?»

«Sì.»

«Vivi qui da sola?»

«Sì.»

«Non sei sposata?»

«No.»

«Hai un ragazzo?»

«Non abita qui.»

«Lo aspetti questa sera?»

«No.»

«Mi stai mentendo?»

«E la verità. Lo giuro.»

Era terribilmente pallida nonostante la carnagione piuttosto scura.

«Se scopro che mi stai mentendo,» la minacciò, «ti ridurrò quel bel visino a strisce.»

Alzò il coltello e glielo appoggiò sulla guancia.

La ragazza chiuse gli occhi e rabbrividì.

«Aspetti qualcuno?»

«No.»

«Come ti chiami?»

«Sally.»

«Va bene, Sally, voglio farti alcune domande, ma non qui, non in questo modo.»

Lei aprì gli occhi. Erano pieni di lacrime. Una le rotolò lungo il viso. Inghiottì la saliva. «Che cosa vuoi?»

«Vorrei farti qualche domanda su Katherine.»

Lei aggrottò le sopracciglia. «Non conosco alcuna Katherine.»

«La conosci come Hilary Thomas.»

«La donna che abita a Westwood?»

«Hai pulito casa sua oggi.»