Le forze che spingevano la nave sempre più vicina alla c estrema non erano soltanto enormi; per necessità, erano anche precise. Erano tanto precise che la loro interazione con l’universo esterno — la materia e i suoi campi di forze — poteva essere ricondotta a una risultante quasi costante nonostante i mutamenti in quelle condizioni esteriori. Ugualmente, le energie propellenti potevano essere associate a campi simili e molto più deboli quando questi ultimi venivano stabiliti all’interno dello scafo.
Il collegamento poteva allora operare sulle asimmetrie degli atomi e delle molecole per produrre un’accelerazione uniforme a quella dello stesso generatore interno. In pratica, però, l’effetto permaneva incompleto. Una gravità era priva di compensazione.
Perciò il peso a bordo restava ai valori fissi riscontrabili sulla superficie terrestre, per quanto alto fosse il ritmo con cui l’astronave guadagnava velocità.
Tale protezione era possibile soltanto a velocità relativistiche. A un’andatura ordinaria, i valori di tau ancora alti, gli atomi erano insufficientemente massicci, troppo vivaci da essere tenuti in pugno. Mentre la velocità si approssimava a c diventavano più pesanti — non rispetto a loro stessi, ma a tutto ciò che si trovava all’esterno dell’astronave — finché l’interazione di campi tra veicolo spaziale e cosmo riusciva a stabilire una configurazione stabile.
Gravità tre non era il limite. Con le membrane completamente estese, e nelle regioni in cui la materia si presentava più densa che altrove, simile a una nebulosa, sarebbe andata considerevolmente oltre. In questo particolare passaggio, data la rarefazione dell’idrogeno locale, ogni possibile guadagno di tempo non era sufficiente — poiché la formula presuppone una funzione iperbolica — a causare la riduzione del margine di sicurezza. Nel calcolo del programma di volo erano entrate altre considerazioni, per esempio la ottimizzazione della contrazione della massa contro la minimizzazione della lunghezza della traiettoria.
Così, tau non era un fattore moltiplicatore statico, bensì dinamico. La sua azione sulla massa, sul tempo e sullo spazio poteva essere osservata come un fattore fondamentale, che creava una nuova e perenne relazione tra gli uomini e l’universo nel quale viaggiavano.
Un dato giorno, che il calendario diceva essere di aprile, e a un’ora che, secondo l’orologio di bordo, era di mattina, Reymont si svegliò. Non si girò nel letto, né sbatté le palpebre, né sbadigliò, né si stirò le membra come avrebbe fatto qualsiasi altro essere umano. Balzò invece a sedere sul letto, già immediatamente cosciente.
Chi-Yuen Ai-Ling si era svegliata già da un po’ di tempo. Il brusco risveglio di Reymont la colse nell’atto di guardarlo, inginocchiata ai piedi del letto al modo degli asiatici, e nello sguardo della donna c’era una serietà che contraddiceva quasi l’umore giocoso di cui aveva dato prova la notte precedente.
— C’è qualcosa che non va? — chiese Reymont.
Ai-Ling dimostrò la sua sorpresa soltanto con un impercettibile spalancar di occhi. Dopo un attimo, il sorriso le tornò lentamente sul volto. — Una volta ho visto un falco addomesticato — esclamò. — Cioè, non era un animale domestico alla stessa stregua di un cane, ma cacciava con il suo padrone e si degnava di stare appollaiato sul suo polso. Tu ti risvegli allo stesso modo.
— Mmm — disse l’uomo. — Stavo parlando di quel tuo sguardo preoccupato.
— Non preoccupato, Charles. Pensoso.
Reymont ammirò il suo aspetto. Spogliata, la donna non avrebbe mai potuto essere definita efebica. Le curve dei seni e dei fianchi erano meno marcate che in altre donne, ma si integravano alla perfezione con il resto del suo corpo — non sembravano qualcosa di posticcio, un ornamento di stucco, come in troppe donne accade — e, quando ella si muoveva, sembravano fluire. Ciò valeva anche per la luce sulla sua pelle, che aveva il colore delle colline che circondano San Francisco nei mesi estivi, e per i riflessi dei suoi capelli, che avevano il profumo di ogni giorno d’estate che mai sia spuntato sulla Terra.
Si trovavano nella cabina di Reymont, sul piano riservato all’equipaggio, divisa a metà dalla paratia mobile che la separava dalla zona occupata da Foxe-Jameson. Era un ambiente troppo squallido per lei. La sua cabina era impregnata di bellezza.
— E che cosa stavi pensando? — chiese Reymont.
— A te. A noi.
— È stata una notte fantastica. — Si chinò in avanti per accarezzarla sotto il mento. Ai-Ling fece le fusa come un gatto. — Ancora?
La donna tornò a farsi seria. — Stavo pensando proprio a questo. — Reymont inarcò le sopracciglia. — Un chiarimento tra noi. Entrambi ce la siamo spassata con qualcuno. O, meglio, tu hai avuto una relazione seria, nei mesi trascorsi. — Reymont si rabbuiò in viso, ma la donna continuò risolutamente. — Quanto a me, non è stata una cosa molto importante; rapporti occasionali, piuttosto. Non intendo spingermi oltre, realmente. Se non altro, quelle allusioni e quegli approcci, l’intero rito del corteggiamento, e tutto il resto… Interferiscono con il mio lavoro. Sto sviluppando alcune idee sui nuclei planetari, e ho bisogno di concentrazione. Una relazione durevole mi potrebbe aiutare.
— Non voglio prendere alcun impegno — replicò Reymont, cupamente.
Chi-Yuen lo prese per le spalle. — Me ne rendo conto. Non è quello che ti chiedo, né che ti offro. Semplicemente, io ho finito per apprezzarti sempre più dopo ogni nostro incontro, ballo o notte trascorsa insieme. Tu sei soprattutto un uomo tranquillo, forte, gentile — almeno per me. Potrei vivere felicemente insieme con te — nulla di esclusivo per entrambi, soltanto un’alleanza, almeno agli occhi di tutti i passeggeri dell’astronave — per tutto il tempo che piacerà a noi due.
— Fatto! — esclamò Reymont e la baciò.
— Così in fretta? — chiese la donna stupita.
— Anch’io ci stavo pensando. Ero stanco anch’io di cacciare. Dovrebbe essere facile vivere con te. — Le fece scorrere una mano sul fianco e sulla coscia. — Molto facile.
— Quanta parte del tuo cuore è in tutto questo?
Ma subito Ai-Ling scoppiò a ridere. — No, scusa, simili domande sono vietate… Possiamo trasferirci nella mia cabina? So che a Maria Toomajian non importerà scambiare il suo posto con il tuo. Tiene comunque sempre chiusa la sua metà cabina.
— Bene — assentì Reymont. — Tesoro, abbiamo ancora quasi un’ora prima dell’appello per la colazione…
La Leonora Christine stava per entrare nel terzo anno di viaggio, o nel decimo anno secondo il tempo stellare, quando la disgrazia le piombò addosso.
CAPITOLO SETTIMO
Un osservatore esterno, che fosse fermo rispetto alle stelle, avrebbe potuto vedere la cosa prima dell’astronave, perché, alla sua velocità, quest’ultima doveva necessariamente correre quasi alla cieca. Anche senza possedere un apparato sensoriale migliore di quello della Leonora Christine, l’osservatore si sarebbe reso conto del disastro alcune settimane prima. Ma non avrebbe avuto comunque modo di gridare i! suo avvertimento.
E non c’era osservazione al di fuori dell’astronave: soltanto la notte, cosparsa di una moltitudine di soli remoti, la gelida cateratta della Via Lattea e il raro scintillare fantasmagorico di una nebulosa o di una galassia sorella. A nove anni-luce dal Sole, la nave era assolutamente sola.
Un allarme automatico risvegliò il capitano Telander. Mentre si dibatteva per liberarsi degli ultimi residui di sonno, udì proveniente dal telefono interno la voce di Lindgren: — Kors i Herrens namm! - L’orrore che trapelava da quelle parole lo fece balzar su, completamente sveglio. Senza indugiare un attimo a rendersi conto della situazione, uscì di corsa dalla sua cabina. Se fosse stato a letto, non avrebbe neppure indugiato quel tanto da vestirsi.